Ieri sono andato al cinema perché avevo voglia di staccare un po’, di spegnere il cervello, complice un tempo uggioso che invogliava a rinchiudersi in una sala buia. Ozpetek, Allacciate le cinture, ho scelto. La visione ha rispettato le attese, un film davvero carino, incentrato sul polimorfo microcosmo sessuale caro al regista, che parla con leggerezza del dolore di vivere e della fatica di amare, oggi, in quel di Lecce. Poi sono uscito dal cinema, ho mangiato una pizza e sono tornato a casa, dopo mezz’ora mi sono addormentato sul divano davanti alla TV .
Ci avete creduto eh?
Beh, di vero c’è che sono andato a vedere l’ultimo Ozpetek. Ultimo solo cronologicamente, a meno che, dopo aver letto queste mie, quel guitto decida dignitosamente di astenersi o di cambiar mestiere. Un film inutile, girato di mala voglia e di malo sguardo, in pieno spregio degli spettatori che nel tempo gli si sono affezionati, credo per pura compassione o perché Er Turco de Roma fa tanto radical chic.
La puzza di estabilishment e di pensiero dominante è insostenibile sin dai titoli di testa: a finanziarlo sono intervenuti Rai Cinema, Apulia Film Commission, Lazio Film Commission, un caravanserraglio di finanziamenti pubblici su cui qualche domandina andrebbe fatta, non dico dai giornali nazionali, ma da qualche insignificante blog, da qualche sito gomblottistico specializzato almeno. Invece no, nessuno se ne cura, tutti a lapidare Sorrentino per i finanziamenti pubblici e privati a La Grande Bellezza, è più facile tirare pietre ad uno che vola o cerca di farlo, piuttosto che ad uno che striscia.
E Ferzan striscia come una biscia, neppure in grado di essere vipera. Accoglie tutti sul suo carrozzone, Mrs. Fandango, Mrs. Crozza, il tronista machochecca, la signora Zingaretti, l’attrice atroce raccomandata da Berlusconi, varie ed eventuali figuranti da fiction, il sindaco di Lecce in persona. Lo sappiamo, a questa gente non basta la grana, vuole essere ammirata, perciò esibisce il suo niente senza vergogna. Al tempo del selfie girare un film è facile, basta qualche stolido faccione che fa le faccine e una sceneggiatura che proceda schizoide per associazione (a delinquere) di idee.
Fosse solo questo il marchio dell’infamia, potrei decidere di soprassedere, invece sotto la superficie bruciano rifiuti ancora più tossici. La storia non emozione, la cura nel banalizzare ogni mood è certosina. La passione non brucia, il dolore non strazia, l’allegria non contagia, anche l’ideologia e l’omofobia sono innocue: tutto è normalizzato, depotenziato, perché il segreto di questo cinema italiano è non dire fingendo di dire, raccontare il personale senza ricordare che il personale è politico, non sia mai si scateni l’empatia e a qualcuno venga voglia di esistere davvero e in prima persona.
Ancora più ignobile è lo scherzo dell’ambientazione: è noto che la Film Commission sganci i dindini per ottenerne un intangibile ritorno quanto a valorizzazione turistica delle location utilizzate, ma Ferzan disprezza anche i suoi politicanti mecenati, trova il modo di mascherare Lecce come fosse un set di cartapesta: piazze e strade riprese solo di sbieco e mai in panoramica, un po’ di mare limpido decontestualizzato a fare tanto Love Story, e – incredibilmente – un cast di attori che parlano con accento romanesco, toscano, genovese, polacco, napoletano, e uno solo che abbozza una biascicata cadenza leccese.
Alla fine, dopo tanta devastazione, l’ennesimo scempio di cadavere, le note di Rino Gaetano, more solito, a fare da colonna sonora ad immagini che non vedrà mai.
Beato lui.
Allacciate le cinture
Frezan Ozpetek
2014.
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