Little Children
2006.
Labor Day
2013.
Due film al prezzo di uno, in tempi di crisi bisogna risparmiare anche sui post. Ma no, è che sono due titoli che hanno importantissimi elementi in comune: entrambi iniziano con la lettera L e sono composti da due parole. Inoltre, nota fondamentale, io li ho visti uno di seguito all’altro. Ragioni più che sufficienti, insieme naturalmente alla spending review, per obbligarli a coesistere sotto lo stesso tetto/post.
A dire il vero ce ne sarebbe un’altra, di ragione. Questa:
Kate Winslet, il talento e il corpo. In due ruoli roventi e passionali, dai quali il suo fascino ne esce rafforzato. E la nostra adorazione rasenta ormai l’idiozia. (Avremmo potuto aggiungere un terzo titolo a questo affollatissimo post, vale a dire Revolutionary Road di Sam Mendes. Ma a differenza dei due prescelti, non l’ho visto ieri. Pertanto niente ménage à trois.)
Sono entrambi adattamenti di romanzi, Little Children di Tom Perrotta (feroce ed appassionato ritratto di umanità e debolezze assortite) e Labor Day di Joyce Maynard, coming of age speziato di erotismo e saccarina.
Ho visto prima Labor Day: per una buona mezz’ora Josh Brolin mi ha guardato storto, ed io ero convinto che da un momento all’altro mi sarebbe saltato addosso per riempirmi di botte. Ma a poco a poco si è rasserenato e ha smesso di fissarmi, concentrandosi sul suo ruolo. Solo allora mi sono tranquillizzato pure io, rilassandomi sulla poltrona. Ho capito che mi aveva perdonato, non dovevo più essere pronto a scappare e mi son goduto il film.
Le mazzate di Josh non costituivano la mia unica fonte di preoccupazione, in rete in molti lo additavano come fallimento mieloso e stantio.
Dopo un promoter delle multinazionali del tabacco, una adolescente incinta, un tagliatore di teste (Up In The Air è uno dei film più dicotomici di sempre), una sciroccata che vuole distruggere un matrimonio, nella singolare galleria di eroi del cinema cinico radicale e modernissimo di Jason Reitman, inserire una mamma single e depressa affascinata dal criminale evaso che rapisce lei e figlioletto tredicenne, appariva una forzatura. (Almeno quanto appare una forzatura la frase lunghissima alla quale ho messo il punto un rigo fa.)
In realtà Reitman si è preso una vacanza dal suo cinema, limitandosi stavolta a raccontare una storia che lo ha appassionato. E lo ha fatto nella maniera giusta, classicissima, sulla scia di un Clint Eastwood (I Ponti Di Madison County o Un Mondo Perfetto) in versione light.
Il tollerabile eccesso di zuccheri è stato bilanciato dalla visione di Little Children, pellicola che scava nel terreno della borghesia, fertilissimo di rancori segreti tradimenti e violenze, portati in superficie con lo stesso dark humour del romanzo di Perrotta.
Se in Labor Day l’eros è scoperta per il tredicenne e rinascita per la sua mamma, in Little Children il sesso è una pietra contro le finestre opache della opprimente vita di provincia, una boccata di aria o una fuga, non importa quanto breve, dalle gabbie asfissianti della Famiglia. Ex poliziotti devastati, il mostro pedofilo da mettere alla gogna (risultato del rapporto malsano con la madre), professionisti rispettabili che in segreto sono dipendenti dal porno sul web, madri-modello dalla sessualità repressa, padri-modello con la scimmia del fallimento sempre sulle spalle. Non si fa mancare niente, Todd Field, in un film che, tanto per rendere l’idea, vale dieci volte American Beauty. Strano (ahahahah) che in Italia sia rimasto inedito.
Se fosse una sfida, Little Children vincerebbe tre a zero. Ma Labor Day una visione la merita, su. Magari riuscirà perfino a commuovervi, branco di cinici senza cuore.