Confessatelo: quanti di voi hanno visto Profugos? Parlo della serie tv, trasmessa qualche anno fa da HBO Latin America. Non vi sprecate a rispondermi adesso, non intasate il blog con i vostri commenti contriti, in pochi, pochissimi lo hanno fatto. Questo è male, è malissimo, non comprendo a quale titolo poi guardiate altro e vi affrettiate a definire questo altro come serie dell’anno, del secolo, del millennio. Dal momento che non avete visto Profugos, vi mancano i fondamentali. Profugos, che significa Fuggitivi e non profughi – lo dico a scanso di equivoci umanitari – è pensata scritta ed in parte diretta da Pablo Larrain, è un road movie, un cocaine thriller, un noir politico, una saga criminale, è la nascita di una nazione, ma a voi non interessa, voi ignorate. Ignorate quindi che in Profugos c’è Moreno, trafficante fuggitivo, con un passato da ex fascista torturatore gaudente sotto Pinochet. Questo Moreno, che poi è stato il subdolo Cucaracha in Narcos di Josè Padilha, ora è l’interprete di Neruda, ed è ovvio che sia così, il contrappasso filmico è la Storia secondo Pablo Larrain. Neruda.
Un pezzo della vita di Neruda, una latitanza come un pezzo di carta, circoscritto da una copertina e scandito dalle pagine del Canto General. Non si tratta infatti di biopic, né di ricostruzione degli eventi, men che meno si tratta di agiografia. Neruda è un racconto, un’invenzione, è fantasia su cosa come quando e perché scaturì quell’opera letteraria. Film immaginifico badate bene, dalle intenzioni manifeste ma di difficilissimo accesso alle scene, arduo anche per chi ama essere fuorviato. Non mitopoietico, ma mitoclastico, quindi audace, capace di entrare con la ruspa nell’ultima riserva indiana, di incendiare il pantheon lacrime e polvere degli eroi comunisti sudamericani. Il Neruda di Larrain è uno bolso, beota, bamboccione, pare un aristocratico decadente tutto ozio e vizio, declama amenità da avanspettacolo e passa il suo tempo tra feste alcoliche e orge boccaccesche. Impossibile determinare il suo forte sentire, è chiaro fin dalle prime come il poeta non soffra, non abbia sulle spalle le sorti venefiche e regressive del suo Paese, i minatori e i campesinos e gli oppressi gli saranno pure cari, ma sono altro da lui, restano visivamente fuori dalle porte o fuori dalle finestre. Il Poeta sembra una caricatura tragicomica, la Resistencia al fascismo di Videla è grottesca come una foto ricordo, stupiscono gli agi, la bambagia, l’inanità del personaggio. Neruda non soffre, non sulla sua pelle, soffro io, lo guardo e guardo figure contemporanee ben più parve, la sinistra italiana della mia crescita e del mio qui, una sinistra di teatranti, di predicatori, tutta volta all’affabulazione ma poi proterva, cinica, egotica, insofferente, accecata dal potere fino alla dissoluzione. Il potere.
Neruda ha il potere (“non c’è niente di male nel cercare il potere”, dice ad un tratto), è circonfuso dal potere, è protetto dal potere (del Partito, degli amici), un’aura lo circonda mentre la sua gente, i compagni di cui canta vengono deportati, mentre nel deserto principia l’attività di macellazione del giovane promettente Pinochet. Nella ostentata dicotomia tra il cantore ed i cantati, nelle inquadrature che passano dalla modalità one-to-one allo one-to-many con la precipitazione e l’implausibilità del sogno, emerge gradualmente la cifra espressiva che Larrain ha scelto in questa circostanza, che è contingente, perché Larrain è un diavolo di soli 40 anni e crea tutto ciò che vuole: è la parola la chiave di tutto, non la visione. La parola non crea ma unisce mondi, costruisce connessioni, disvela verità. Oltre che mitoclastico, Neruda è un film logopietico, il poeta è la parola – la voce – e la sua gente il corpo del Cile. Significativo in tal senso che il poliziotto fascista – non l’antagonista, perchè non è nemico, ma il personaggio secondario, lo stolido segugio, colui che vanamente è volto all’inseguimento -, cerchi la traccia del profugo (del fuggitivo) nei di lui scritti, come una caccia al tesoro, e venga continuamente beffato, trovando copie di romanzi dove fino a poco prima c’era il latitante Neruda: trova la parola, non il corpo del poeta, il corpo sono tutti i Cileni, il corpo è lui medesimo. Simbolico, ancora, è che Picasso parli di Neruda alle masse sventolando la carta di una sua lettera, come una bandiera di libertà.
“Neruda è ovunque in Cile”, afferma beffardo Larrain in intervista: la ricerca di Neruda diventa essa stessa Neruda, Neruda appare e scompare, si traveste da prostituta tra le prostitute, è manichino in vetrina, è un sacerdote in abito talare, Neruda è inafferrabile, perché è ubiquo, di un’ubiquità politica, geograficamente circoscritta, infatti non riesce a espatriare, quasi che fuori dai confini cessasse di esistere. Il logos si definisce nel procedere della visione, la surrealtà della voce fuori campo e dei multiformi generi cinematografici – la fuga di Neruda come commedia, road movie, poliziesco, western – assurge a metafisica del linguaggio, si impone, trascende definitivamente i corpi e la morte, promette resurrezione, è immortale. La parola è la Storia, secondo Pablo Larrain. Sia lodato il Dio del cinema, sempre sia lodato.