Blade Runner 2049. Ma gli androidi sognano pecorine elettriche?


Solo accettando la finzione, noi, ritroveremo l’umanità. Sembra una dichiarazione di intenti, è un motto, il verso di una canzone che al momento mi tormenta, o mi esalta, il che è lo stesso, data la compromessa obsolescenza delle mie sinapsi. Ci sarebbe da fare i sacerdoti del sommo nulla, e passare questo tempo scrivente ad interrogarsi su un grande enigma del nostro non tempo, se cioè sia più importante la riproduzione, o la riproducibilità. Decido invece di optare per il sommo valore della sterilità, intellettuale ancorché morale, quindi non ho spunti da spruzzarvi addosso. Resto inerte, dopo Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve.

Inerte, tendente all’acrimonioso. Non si è ancora silenziata l’eco del vituperio a Luc Besson, colpevole, secondo tanti, di aver fatto un pastrocchione fantascientifico di dubbio senso e di controversa capacità di intrattenimento. Quel pastrocchione, così sbeffeggiato, ha racimolato ad oggi un gruzzolo accettabile, ma nessuno più se ne cura, come una  bomba atomica è esploso lo iato tra il giudizio della critica, di quelli che ben pensano, e lo scarsissimo gradimento del pubblico, riguardo l’ultima colossale opera del Denis regista canadese. 150 milioni di dollari spesi per presentare un futuro oramai prossimo da una prospettiva retrofuturibile, come cioè sarebbe apparso il 2049 all’epoca del film sorgente o della risorsa letteraria scrivente (Philip K. Dick, by the way). Come da incipit, niente di nuovo sotto il pallido sole post atomico: grattacieli come pinnacoli, città come ziggurat scomponibili, fumi tossici, gamme cromatiche fuor di sesto. A guardar meglio, c’è un elemento dominante: è l’acqua, o un liquido facente funzione. L’acqua, usata come complemento d’arredo in quartier generali di ispirazione new age; nella sua forma più romantica, la pioggia, #daunideadirideleyscott ma anche #dalcinemadiwongkarwai; nella sua forma più soffice, la neve; nella sua forma più impetuosa, cascata che divide questo mondo dall’extramondo. Acqua, come risorsa scarsa ma rinnovabile, di contro alla polvere e al degrado, al putrìo, che è risorsa in perpetuo inesauribile.

Questi i dati di contesto, tra questi viene a collocarsi Ryan Gosling, spaesato replicante, incerto più che enigmatico, apatico più che empatico. Come uno qualsiasi, come uno di noi, Ryan fa un lavoro di schifo, poi torna nel cubicolo domestico per spararsi il suo personale simulacro di pornazzo. L’ho messa giù dura, lui in realtà sembrerebbe interessato al romanticismo, alla possibilità di un’anima da condividere tra il sé, finto verosimile, e la giumenta ologrammatica che gli è toccata, ma stringi stringi i suoi desideri tendono alla copula in 3D. Forse sarà esaudito, replicando il triangolo fantasmatico già visto in Ghost (Swayze-Moore-Goldberg), oppure ci andrà soltanto vicino, oppure ancora lo avrà solamente sognato. Quel che è certo è che la figura della donna, procace, di pelle bianca, giovane, abbigliata o nudissima, è il marchio di Blade Runner 2049: femmine sono i capi di polizia, femmine i sicari, le prostitute, le resistenti, le predestinate, le precognitrici, i monumenti.

L’occhio che guarda il gineceo è maschile, l’impulso giunge pavloviano, il cervello si attizza, il cuore pulsa, il muscolo si ingrossa. In una visione che vuole essere così programmaticamente magniloquente, mi trovo ridotto a ragionare su pensieri minimi, su quanto appaia essenziale il sesso anche in piena distopia. Per un nobile fine certamente, per la prosecuzione/inaugurazione di una specie. Con connotati poetici certamente, come atto demiurgico che vivifica e trasforma e unisce. Con tutte le sfumature immaginabili certamente, ma la visione è, resta sessocentrica. Questo sarebbe un diretto riferimento a Philip Dick, che sul rapporto con le donne ha costruito tanta parte della sua (ri)produzione letteraria, solo che la schizoide misoginia dickiana viene lavata e ricoperta da un’insopportabile, fintissima corrispondenza di amorosi sensi. E’ l’amore a contare, dicono le frasi buttate a casaccio come aforismi for dummies. E’ l’amore a mancare, dicono i monologhi grotteschi pronunciati da figurine sgangherate: penso a Jared Leto, il peggiore hipster mai visto al cinema, o ad Harrison Ford, che ci si ostina a tenere artificiosamente in vita filmica. In linea di massima andrebbe bene, potrei tollerare questa lectio miserrima: nella dissoluzione delle classi sociali, nell’epoca della implosione dell’individuo, non c’è più una luna o un sole da guardare– l’ideologia, la politica, il futuro -,  l’unica strategia possibile è contemplare il proprio dito, ripiegare sull’emozione vissuta o innestata, sbrecciata come una proiezione sfasata di Elvis the Pelvis.

Quello che non è tollerabile, dal mio sterile punto di vista, è che si rinunci cinicamente all’affabulazione, al racconto, e che si voglia tenere costretto lo spettatore, come imprigionato, in quasi tre ore di illusione ottica, di visione onanistica, masturbatoria, senza ritmo, e quello che è più grave, senza passione. Come avevo pensato già per Arrival, e prima ancora per Sicario, Enemy e Prisoners, anche Blade Runner 2049 mi ha dato poche emozioni ma effimere e non definitive. E’il cinema di Villeneuve, un meraviglioso, monumentale coitus interruptus.

Un pensiero su “Blade Runner 2049. Ma gli androidi sognano pecorine elettriche?

  1. Ancora una volta sono d’accordo con te. Facevo fatica a capire tutte queste lodi per Villeneuve. Intendiamoci dal mio piccolo punto di vista riconosco le sue capacità tecniche visive e intellettuali, ma questa mancanza di ritmo e soprattutto questa incompiutezza l’ho sempre riscontrata. Mi sono parecchio annoiato durante la visione di questo film.
    Un saluto

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