Le parole che vi accingete a leggere sono tratte da una storia vera. Si parla di me, che faccio un post su quello che penso di un film che ho visto. Il mio giudizio è grezzo, laico, soggettivo, relativo. Non abbiatene a male, oppure abbiatene, non importa. Io sono dikotomiko, e questo è il mio biglietto da visita. Chiamami Col Tuo Nome, di Luca Guadagnino.
Pur affetto da evidente alopecia androgenetica, giunta ad uno stadio alquanto avanzato, in foto e video Guadagnino non si fa scrupolo di acconciare i residui capelli in modo anacronistico; evidente è il tentativo di un’azione di riporto, inficiata nell’esito da correnti d’aria ed altri imponderabili eventi atmosferici. C’è, in questa strenua resistenza alla sconfitta delle cheratine, qualcosa di antico: un orgoglio d’antan, un dandismo di rinculo, un anacronismo narcisista, ed anche autoironico. Guadagnino è un uomo di talento, un artista, ma è anche un imprenditore illuminato, per giunta cosmopolita. L’abbinamento delle due doti, cioè l’eccellenza nell’arte e la destrezza nell’impresa, produce ideologia, una visione peculiare di mondo. Gudagnino è un’ideologia, lo è il suo produrre cinema, lo è il suo fare cinema.
Questa premessa è doverosa per me, perché non riesco a separare l’opinione sull’uomo da quella sul film. Mi era già successo con A Bigger Splash, opera per la quale provai entusiasmo (leggete qui), e mi succede a maggior ragion con Chiamami Con il tuo Nome.
Chiamami con il Tuo Nome è un esempio del cinema che detesto, probabilmente perché non ho gli strumenti, o la sensibilità, per capirlo.
Non capisco, infatti, come si possa ardire tanto da presentare allo spettatore un famiglia multilingue, anglo-franco-italiana, che alterna gli idiomi per capriccio e non in base alla funzione d’uso. Una famiglia smodatamente ricca, presumibilmente per meriti intellettuali, composta da personalità apicali: una madre che per trovare ristoro alle sue fatiche legge opere rinascimentali in tedesco, un padre che pesca opere tardo elleniche con il gommone, un figlio adolescente maestro liutaio e infoiato alla bisogna, più altre varie ed eventuali presenze. Borghesi d’alto bordo, intellettualissimi, che svacanzano nel casale di proprietà, nel pieno degli anni 80. Si è in Lombardia, una regione assolata, un’Arcadia rigogliosa di verde e di corsi d’acqua, dove questa avanguardia sociale può fare libere e ristoratrici abluzioni, beandosi di dolci eterogenei amorosi pensieri. E’ la Lombardia, rappresentata da un maestro di fotografia di chiara fama mondiale, eppure sembra uscita #daunideadellapuliafilmcommission, tanto è oleografica, linda, luminosa: una spa a cielo aperto.
Perfetto poi il paesello dove le nobili menti si recano, su ciclo o autoveicolo, quando scendono sulla terra per mischiarsi ai comuni mortali: è estate, certo, non è lecito aspettarsi frenesia e ritmi ansiogeni da giorno feriale, ma si respira puzza di set da un chilometro di distanza, tutto, più che rarefatto, risulta artefatto. Fino a questo momento, ho omesso di parlare del giovanottone biondo che è la benzina nel motore del film, anche lui ricco, bellissimo e dal forte sentire. Esibisce, sin dalle prime battute, un ciondolo da collo raffigurante una stella di Davide: ove lo spettatore non fosse accorto al dettaglio, ci pensa il ragazzino dall’ormone facile a chiarire la sua, e la propria origine ebraica. Può essere che questo sia ulteriormente funzionale a connotare uno status, o che sia un orpello: la mia perplessità sul punto è ancora molto viva.
Tutto fila bene, o quasi. Non bisogna però dimenticare che Guadagnino è ideologico, e allora eccolo che nella sua favola inserisce, brutalmente e randomicamente, la politica interna: un’anziana massaia custodisce paciosa l’effige di Mussolini; un manifesto, uno solo, richiama la campagna elettorale in essere all’epoca dei fatti rappresentati; commensali che si attivano a comando, come robot, parlano a macchinetta sulle derive del pentapartito. Per chi non ne avesse abbastanza, c’è anche Grillo alla tv, un espediente che permette al nostro Luca di restare così, sospeso, confuso e felice, tra il profetico ed il satirico. E di non risolvere l’equivoco di fondo, se cioè abbia voluto girare un film intimistico, un romanzo di formazione sulla scoperta del sè e dellamore in ogni sua forma, oppure se abbia voluto girare un film sociale – anche politico – , come sembrerebbe emergere dalle sue dischiarazioni di questi giorni, sull’Italia 4.0 che sarebbe o meno pronta a vedere se stessa con gli occhi nobili, liberi e belli dei personaggi del film.
E’ passato del tempo, da quando ho visto il film, e questo tempo ha lenito la rabbia, più che la noia, che ho provato nel corso della visione: oggi posso ammettere che c’è molto cinema in Call Me By Your Name, composizioni di scene e musiche che sembrano perfette, che funzionano come istantanee anche decontestualizzate. Continuo tuttavia a non provare alcuna empatia per una storia incentrata, lo ripeto, sulle gesta amorose e familiari di un’elite fasulla, talmente chiusa nel romanzo del suo piccolo mondo antico da puzzare di morto, o di finto.
Non faccio parte, pertanto, del coro di chi è rimasto abbagliato da un Gudagnino maieutico, nè mi unisco alle retrovie di chi si batte il petto e sparge letame su spettatori e cinema italiano, davanti ad un successo di portata internazionale. Call Me By Your Name per me è un film dignitoso su un amorazzo estivo, da consumare in tutti i luoghi ed in tutti i laghi, che cela nella sua stessa struttura elementi tanto reazionari da essere molto, molto pericolosi.