Dal punto di vista della scrittura, il #metoo ha prodotto più danni del maccartismo. Autocensura a gogo, Sceneggiature capovolte, ginocentrismo tolemaico, con la donna al centro di qualsiasi universo, e figure maschili definite con l’accetta, in modo grossolano. Il disastro è stato ancora più evidente nell’horror, dove il dualismo tra boogey male, babau, villain alfa da una parte, e final girls dall’altra, aveva caratterizzato quarant’anni e passa di produzione. Con We Summon the Darkness il #metoo arriva alla codifica definitiva, passa all’(heavy) #metaltoo: un genere nel genere, quello dei film a tema metallaro, che da nero diventa rosa sangue. Il film è We Summon the Darkness, dirige, sceneggia Alan Trezza, produce e interpreta Alexandra Daddario.
Alexandra non è una diva, nel senso, non è una top player hollywoodiana, eppure per molti è puro culto: l’ostensione delle sue mammelle, in quanto amante del dolente Woody Harrelson in True Detective S01, è tra i video più ricercati sulle piattaforme XXXhub, categoria Celebrity. Tette da urlo, occhi e sorriso da sballo: secondo Vulture, nelle commedie sentimentali Daddario incarna il personaggio della pupa da knockout, quella che con le sue floride virtù e la sua simpatia travia il protagonista principale. In Bury the Ex, la horror comedy di Joe Dante, interpretava una bellissima (ovvio!) fricchettona con la passione per gli horror, costretta a rivaleggiare in amore con una non morta. Alan Trezza è appunto lo sceneggiatore di Bury the Ex, la chimica con e per Daddario è evidente. We Summon the Darkness allora, un film rovesciato dicevamo, come le croci che indossano le protagoniste. Tre amiche sexy, single, sboccate, in auto on the road verso un concerto metal, sul limitare degli anni 80. L’occhio dello spettatore finisce invano nelle scollature, la testa va al who dies first? tra loro. E’ una falsa traccia, elementi di disturbo disseminati subdolamente insinuano il dubbio che le tre siano i lupi, non le pecore di turno. La certezza arriva quando Alexandra, con naturalezza da maniaco, lecca dal cofano del suo pickup una sostanza che pare merda, ed è solo milk shake. A lanciarlo, in proditorio sorpasso, tre sgangherati metallari che le nostre amiche ritrovano al concerto. La birra cementa l’amicizia tra le opposte fazioni, il pogo (appena accennato,colpa del budget) solletica i corpi: i 6 vanno a finire la serata nella sfarzosissima villa di Ale. L’alcool scioglie la favella, dialoghi di eco tarantiniana celebrano una appassionata ode al metal di quegli anni, alle performance ed agli assetti variabili di band storiche, i Metallica and so on. Lo iato estetico tra le bellone e bruttoni è evidente, ma ancora quel dannato occhio dello spettatore scruta sotto borchie e chiodi, ora arriva il sesso, ora arrivano le tette, vero? Sbagliato, sbagliatissimo, ora arriva il body blaming, il più grasso e logorroico dei tre amici viene scannato pro Satana. Una messa in scena da rito satanico, in realtà. Le tre amiche, infatti, sono tre virago al soldo di un predicatore cattolico ultraortodosso, ammazzano in giro per l’America tra pentacoli e teste di capro, per tenere alto il Satanic Panic e portare acqua, sangue e denaro alla causa dell’ayatollah. Abbiamo già detto troppo della trama: la gran parte del film è una caccia al maschio nelle stanze della villa, all’insegna dell’inventiva e dell’ilarità: armi improbabili, delitti impreventivati , fiamme. E scintille, la scintilla dell’amore, tra la meno compromessa del trio mortifero, ed il più efebico, pallido, effeminato dei poracci. La successione di plot twist scatenano la meraviglia e l’ilarità, dando anche il tempo a Trezza di calcare ulteriormente la mano contro culture patriarcali e sovrastrutture sociali. La regia tiene benissimo il ritmo, e di ritmo dissonante si deve parlare quando, meraviglia delle meraviglie, il disco comincia a girare, la puntina si abbassa, parte una delle canzoni pop più trash di quegli anni, a tumulare le chitarre distorte ed i loro discepoli, a scandire il massacro quasi finale. Pop killes the Metal Star quindi: l’ultimo, il più alto degli stereotipi rovesciati del film. Così rovesciati che Metalsucks, bibbia on line per gli adepti ai lavori, ha lanciato una chiamata alle armi su scala globale. “Why every metalhead should support We Summon the Drakness” ha titolato, celebrando il film in quanto spazzerebbe tutti gli stigma impressi negli anni alla cultura metallara. Non proprio tutti: i metallari del film non sono cattivi, ma restano brutti e sporchi. Così come le nostre dark ladies restano vestite, e questo è l’unico, dolente minus, perché una comedy horror con il freno inibitore tirato non può diventare cult movie, no. Resta solo uno specchio, brillante, corrusco, ma pur sempre uno specchio di questi puritani mala tempora.