Avatar; the way of water, das blaue licht


“Sono stato attratta dalla bellezza sin dalla mia infanzia. Nelle mie memorie ho descritto come da bambina mi occupavo di farfalle, di fiori, di cose romantiche e di come componevo poesie e di come la danza mi affascinava. Ero molto affascinata da tutto ciò che era bello. Questo era ciò che volevo catturare nelle immagini. L’altro, il brutto, mi commuoveva molto quando i grandi artisti lo rappresentavano. Ma io stessa non volevo crearlo perché in questo caso simpatizzavo troppo con esso. Volevo condividere la mia esperienza di bellezza con gli altri in modo che potessero riviverla. Volevo catturare la bellezza, che ovviamente è transitoria. L’opposto della bellezza mi rende triste, e mi è venuto in mente che quando uno è malato o triste o si sente negativo. Sarebbe davvero bello se potesse godere della bellezza. Non a tutti piace il bello, ma alla maggioranza piace più del brutto che si tenta di superare. Come il malato si sforza di guarire, così cerca di avere un aspetto migliore, è del tutto naturale.”  Parole di Leni Riefensthal, intervistata dal quotidiano Die Welt sul limitare della sua vita terrena, il 7 gennaio 2002.

Leni, la famigerata regista del Terzo Reich, presentava Underwater Impressions alla veneranda età di 99 anni. Era un non film, 45 minuti di riprese subacquee sulle note new age di Giorgio Moroder e Daniel Walker. Lei stessa ed il suo fido cameraman (non kamaraden) Horst Kettner avevano filmato per 25 anni, in primis nelle acque paradisiache di Papua Nuova Guinea. Underwater Impressions aveva ricevuto strana attenzione e pelosa, veniva bollato come un estremo tentativo di lavarsi, di mondarsi la coscienza visiva, da alcuni. Secondo altri, l’opera era in perfetta continuità con il marchio della bestia impresso sugli occhi di Riefensthal, altro non era che ecofascismo o econazismo: quella misticheggiante filosofia imperniata su sangue e terra, sulla nostalgia di un ordine naturale delle cose, sulla connessione spirituale e corporea, organica e metafisica, tra madre patria e figli patrioti. Come tutta le sue opere, come tutte le tappe della sua vita ultracentenaria, anche quest’ultima, questa personalissima via dell’acqua, non passava inosservata.”Io cerco l’armonia, sott’acqua a volte l’ho trovata”.

Il paragone tra la recherche di Riefensthal e questo Avatar 2 può sembrare blasfemo, irriverente, provocatorio, e a conti fatti vuole esserlo, E’ infatti vero, come ha opportunamente scritto Di Nicola su Nocturno.it, che una delle chiavi di lettura del film di Cameron possa essere l’antispecismo, o la declinazione panumanista o panumanoidista della lezione di Ursula K. Le Guin, ma è altrettanto vero che queste chiavi sono universali, la loro applicazione dipende, né più né meno, dal punto di vista. E quanto al punto di vista, esistono inconfutabili affinità tra Cameron e Riefensthal, ben più, ad esempio, che tra Cameron e Malick, o tra Cameron e Spielberg.

DEEP BLUE EYES

Cominciamo ad incamminarci, ad immergerci nella via dell’acqua di Cameron. Si parte da una superficie, si va in discesa, si procede nell’oscurità e nell’incognito, cercando a tentoni. Cercando cosa? Un confine? Un limite? Nuove forme di vita? Nuove forme di vista, possiamo dire. “Ci sono impronte umane sulla luna. e Rover sta esplorando la superficie di Marte. Possiamo cercare su Google un’immagine satellitare di qualsiasi luogo sulla superficie terrestre. Quindi spesso pensiamo che il nostro pianeta sia stato completamente esplorato. Ma le profondità degli oceani rimangono un mistero e le profondità estreme sono state appena intraviste. Laggiù c’è l’ultima grande frontiera del nostro mondo. Ci sono 12 fosse profonde più di 4 miglia. Sono lunghe migliaia di miglia e hanno un’area complessiva più grande del Nord America. Quello laggiù è un continente oscuro, che aspetta di essere esplorato. Invisibile agli occhi umani, perché le macchine non esistono per portarci lì. È il mio sogno costruire una macchina del genere, entrarci dentro e immergermi nei luoghi più profondi del mondo, per esplorarli con i miei occhi.” Parole sue, di James Cameron, nell’incipit di Deepsea Challenge, 2014. Deepsea Challenge è il documentario che segue il regista nella sua avventura più estrema – dannunziana ? -: la discesa in solitaria fino al fondale della Fossa delle Marianne, con un sottomarino realizzato da un team di progettisti che lui stesso finanziò ed indirizzò. Cameron infatti, prima ancora che regista, è un cyborg, un uomo-macchina: finanzia, progetta e segue la realizzazione delle sue estensioni meccatroniche, siano esse macchine da presa, o batiscafi, o bracci elettronici semoventi. Cameron è homo faber, con lo sguardo rivolto verso il basso. “Ho iniziato a prepararmi per queste immersioni da bambino: entrare in una scatola di cartone, immaginare che fosse un sottomarino. Disegnare con un pastello alcuni indicatori. Benzina, profondità. Sì, ero un vero fanatico della scienza, sai, ma per me si trattava solo di cercare di capire il mondo, capire i limiti di possibilità. Penso che provenisse da essere un ragazzino negli anni ’60, quando stavamo facendo tanta esplorazione. Dall’andare sulla luna a Jacques Cousteau che esplorava gli oceani. Ho adorato quella roba. Non riuscivo a pensare a niente di più bello che essere un esploratore dell’oceano profondo.”

L’ignoto spazio profondo è per Cameron l’ignoto abisso profondo, dunque. Al vuoto pneumatico dello spazio sostituisce l’elemento liquido, l’acqua. Guarda verso il basso, più giù di tutti, ma l’abisso non lo inghiotte né gli restituisce lo sguardo. Alla fine di Deepsea Challenge, Cameron atterra – ammara? Alluna? – sul fondale della fossa, per scoprire che è vacuum: è materia, polvere, sedimento, è stasi. Nulla da guardare troppo a lungo. Si accorge allora, e noi con lui, che la sua via dell’acqua è un viaggio in itinere, la suggestione del movimento è ben più significativa del climax dell’arrivo. Nelle immersioni di prova con il batiscafo (si chiama Deepsea Challenger, appunto) viene attratto dalle più singolari forme di vita, di vista: meduse, piovre, totani. UFO: underwater flying objects. Si accorge quindi che esplorare con i propri occhi è tutt’uno con la ricerca delle forme, del colore, della luce. In particolare, è attratto come una falena dalla suggestione della bioluminescenza, cioè la capacità degli organismi vivente di emettere luce attraverso particolari razioni chimiche. A sua detta, tutta l’esperienza di Avatar è una via dell’acqua, una via verso l’acqua, sin dalle prime battute del primo capitolo. Jake Sully, persona a ridotta mobilità (“…quando uno è malato e triste si sente negativo”, Riefensthal dixit) diventa altro da sé, color blu Na’vi, solo nel suo personale batiscafo, come personale è il batiscafo di James Cameron, ed in questa situazione di isolamento, di ricerca della luce comincia la sua esperienza.

BLUE IS THE WARMEST COLOUR

Approfondiamo ora il discorso di questo Avatar 2: the Way of Water. Se il primo capitolo era sostanzialmente un film western, anche in modo piuttosto classico, il secondo capitolo invece è di genere proteiforme: parte come western ma poi deraglia, prende tutte le pieghe possibili del racconto di avventura, ricalcando felicemente alcuni topoi delle precedenti, celebratissime opere di Cameron. Ci sono tanti riferimenti a The Abyss, verissimo, ma altrettanti ai Terminator, e a Titanic, uniti a guizzi di fantascienza retromaniacale. Come in molti hanno già osservato, il racconto di Avatar 2 è corale e si inserisce nella serializzazione di una storia che invece era bella che compiuta. Avatar 3 è stato infatti girato insieme al 2, ad almeno ulteriori due capitoli seguiranno. Il fatto è che dal 2009 il mondo del cinema è cambiato, in peggio, con la deflagrazione del Marvel Cinematic Universe, e con la  proliferazione all’infinito della Star Wars saga, e gli spettatori di sti cinefumettoni sono target cui Cameron è costretto a puntare, per realizzare quegli introiti che gli permettano di continuare a esplorare il mondo con occhi prometeici, a costruire i suoi propri mondi. Pandora infatti, il pianeta dei Na’vi, è tutto un world building, una costruzione di mondo. Mondo come Terra, non altri pianeti: è quello che cerca di vedere o che vede Cameron, esplorando il reale. La coralità delle storie di Avatar WoW è rivolta specificamente ai ragazzini dunque, ma almeno non spinge i poveracci alla frustrazione, non occorre essere cultori di qualche fumetto oscuro o collezionisti feticisti, basta guardare, o riguardare, Avatar 2009, e rimettersi gli occhialini 3D. Ora Jake Sully non è più un lone ranger solitario, ha tanti figli naturali e anche adottivi, non difende un mondo né un’idea: difende la famiglia. Questa famiglia è una sorta di cellula militare in nuce, con i maschi adibiti ad apprendistato delle tecniche di caccia e di difesa, e le femmine libere di praticare la connessione sciamanica con la natura, che è l’essenza della vita su Pandora. In questo panteismo neotribale panteista trova inusitato spazio un rigurgito di Cristianesimo: Kiri, figlia adottiva di Sully, Na’vi che pare essere stata generata dalla morente scienziata (Sigourney Weaver) del primo capitolo, ignora chi sia sua padre, e tutto il film induce il sospetto che la sua sia stata un’immacolata concezione. Sospetto avallato dalle sue virtù taumaturgiche miracolistiche, peraltro. La fuga di Sully, dicevamo: inseguito da un replicante Na’vi del marine che sconfisse in duello mortale, Jake fugge dalla terraferma, porta il suo clan lontano, per approdare in una sorta di Polinesia del pianeta Pandora. La difesa della famiglia, così ostentata, così ortodossa, confonde le idee: si sostituisce alla difesa del pianeta stesso, pregiudica l’impalcatura stessa della comunità arcadica dei Na’vi. E’il corso degli eventi, in Avatar 2 va così: il titanismo dell’eroe si parcellizza e si moltiplica, ognuno ricerca la sua particolare esperienza di lotta e formazione, nonostante e malgrado la comunità. Un’esperienza che, nel vero senso della parola, è immersiva. La gran parte di Avatar WoW è un viaggio meraviglioso alla scoperta delle creature dell’acqua, è l’esperienza stessa dei colori e della luce dell’acqua. Davanti all’ignoto abisso profondo si è soli, dicevamo, e quindi Cameron rimodella la figura del reietto, del Jake Sully del primo film, che in realtà, è colui che vede prima degli altri ed agisce prima degli altri. Ora reietti sono i suoi figli in vario modo minori, il secondogenito maschio e la adottiva. I reietti, come nella cultura romantica tedesca, diventano i veri giganti, diventano Leviatani. Diventano TulKun: cetacei formidabili, in corrispondenza di amichevoli sensi con i Na’vi delle acque. L’epica del reietto è il motivo per cui il film prende un detour inusitato e, tra tutte le sembianze dell’avventura per ragazzi, ritorna al racconto che ha forgiato la letteratura americana tutta, a Melville e a Moby Dick (o a Poe e a Gordon Pym?). L’apoteosi del film infatti è tutta un whale-ageddon: la caccia alla balena madre, fino al suo estremo sacrificio, e il successivo assalto alla baleniera ad opera del Tulkun solitario, con la salvezza che passa attraverso un ulteriore sacrificio, quello dell’eletto e non del reietto, il primogenito adorato di Sully. Non è un Paese per eletti, Pandora, no, è un Paese per reietti. Ma latente in quello che dovrebbe essere, come dicevamo all’inizio, un messaggio panumanista, si cela un fastidiosissimo darwinismo, che si esibisce nella rappresentazione degli umani. Il ragazzino umano nato sul pianeta e allevato dai Na’vy, come fosse un Mowgli 4.0, si comporta come un buon selvaggio, e compie delle azioni molto poco coerenti nello sviluppo della narrazione. Al pari, i cacciatori di Tulkun sembrano un inno al body shaming, lombrosianamente bolsi e  goffissimi in un mondo di ariani della pelle blu. Tutti gli umani, anche gli scienziati rimasti su Pandora alla fine del primo film, condividono l’handicap della respirazione, hanno bisogno di una maschera per respirare regolarmente su Pandora. Il respiro è un’altra delle suggestioni in Avatar 2: c’è il respiro della terra, quello che Kiri sente nella sua estasi pseudoreligiosa, c’è il respiro del mare, c’è il respiro da imparare o da avere in dono per sopravvivere all’abisso. Respiro, via per la meditazione, via interiore per cercare di vedere quello che Cameron vede. Uno spettacolo meraviglioso, a volte senza un perché.

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