The Chronicles Of Evil. Il caro, vecchio, solido thriller coreano


Con più di due milioni di biglietti staccati, 700.000 solo nel primo weekend, è stato il film più visto nelle sale coreane nel mese di maggio di quest’anno, dopo Avengers: Age Of Ultron e Mad Max: Fury Road. Il merito, oltre al sempre valido passaparola, va ad un cast di tutto rispetto: i volti sono familiari anche da queste parti, e lo sono maggiormente a chi ha presenziato alle gloriose giornate de I dispersi verso Oriente. Il protagonista, poliziotto della omicidi sulla via trionfale di una imminente promozione, è Son Hyun-joo, che abbiamo ammirato in Secretly, Greatly e Hide And Seek. Nella sua squadra spicca il detective Oh, che ha il riconoscibilissimo volto di Ma Dong-seok, visto di recente in Kundo: Age of Rampant, ma che tutti ricorderete incazzato nero in One On One di Kim Ki-duk. Il ruolo chiave è però quello assegnato al giovanissimo teen tv idol Park Seo-joon, 26enne al suo debutto cinematografico, l’ultimo arrivato nella squadra omicidi, l’allievo devoto, la mascotte benvoluta da tutti i colleghi.

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A Hard Day. Un giorno di straordinaria follia coreana


La legge di Murphy tradotta in coreano, ovvero: se qualcosa può andare storto, non solo andrà storto ma diventerà una catena di eventi nefasti inarrestabile, una spirale senza fine di incubi e catastrofi talmente assurda da somigliare pericolosamente alla vita reale, una valanga di guai sparata addosso a velocità folle. Per nostra fortuna parliamo di cinema, e tutto questo si traduce in due ore di divertimento assicurato, anche se un po’ sadico, capace di tenere incollato alla poltrona con gli occhi sgranati anche il più assonnato e svogliato degli spettatori. Azione. Thriller. Black comedy. Caccia all’uomo. Poliziesco. Durante le giornate dei Dispersi Verso Oriente, si è spesso posto l’accento sul mix di generi che caratterizza sempre le nostre pellicole coreane preferite. A Hard Day in tal senso è uno dei migliori esempi del 2014.

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Haemoo, in Corea come a Lampedusa


Basta ascoltare la parola scafista, e subito scatta l’associazione d’idee: lo scafista è un criminale senza scrupoli, che lucra sulla disperazione di massa di uomini e donne, trasportandoli, e talvolta ammazzandoli, lungo le famigerate rotte dalla Tunisia o dall’Egitto verso Lampedusa, o dalla Turchia alle coste pugliesi, tanto per fare due esempi tra tanti. Lo scafista è però solo l’ultimo tassello, quello in prima linea (spesso migrante de luxe, magari millantando doti da skipper per ripagarsi il viaggio), di una organizzazione finanziaria e criminale enorme, che muove fiumi inesauribili di denaro. Inesauribili come i flussi migratori che sfrutta, e redditizi quasi come il traffico di eroina. E’ una organizzazione molto complessa, potente, sempre mutevole: reclutatori, coordinatori, recuperatori di crediti, trasportatori, funzionari pubblici corrotti, ladri e falsificatori di passaporti, in costante movimento e incessante attività, per quella che risulta essere “la maggiore agenzia viaggi mondiale”, come hanno raccontato Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci in “Confessioni di un trafficante di uomini” (Chiarelettere, 2014). Si tratta infatti di una rete globale, e tra le mille rotte ricorrenti non è certo ultima quella che porta dalla Corea del Nord e dalla Cina verso la Corea del Sud. Un tragitto percorso, nel 2001, anche da una nave, la Taechangho, che prima di allora era una nave di pescatori. Con la crisi asiatica del 1998 i posti di lavoro erano crollati come tessere del domino, e il capitano della nave si trovava in cattive acque (oops…), tanto da accettare lo sporco lavoro di scafista, stroncando sul nascere le proteste dell’equipaggio grazie ai rotoli di banconote subito disponibili e distribuiti, e trasportare clandestinamente diverse decine di migranti. Il viaggio della speranza mutò in tragedia, e proprio a questa tragedia reale si ispira Haemoo (Sea Fog), durissimo film dell’esordiente alla regia Shim Sung-bo, in passato co-sceneggiatore di Memories of murder insieme a Bong Joon-ho: quest’ultimo, oltre ad aiutarlo nella produzione, è intervenuto nella scrittura, tanto da far sembrare Haemoo una sua creatura.

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Man On High Heels, un film dikotomiko


Una delle leggi sacre ed universali del noir, forse la più sacra ed universale, riguarda l’impossibilità di lasciarsi alle spalle il passato, specie se si tratta di un passato violento e costellato di nemici. Esemplare è il caso di un poliziotto temuto e rispettato da tutti, incubo dei boss e noto per la sua attitudine a spaccar loro più o meno ogni osso. Per quanto si sforzi di vivere come un lupo solitario, nel cuore di Ji-wook qualche affetto penetra e nidifica: il giovane collega che lo idolatra, e la graziosa ragazza che gli serve da bere, occasionalmente informatrice ed esca, su tutti. Quando Ji-wook decide di lasciare la polizia e diventare di conseguenza più vulnerabile, espone inevitabilmente le persone care alla sanguinosa vendetta dei suoi nemici. Così vanno le cose, così devono andare, nel noir. E così vanno in questo film. Ma c’è un dettaglio, che rende questo personaggio, questa storia e questo film sovversivo: il passato che Ji-wook vuole lasciarsi alle spalle non è semplicemente quello di poliziotto, ma quello di carismatico rappresentante del sesso maschile. Dopo aver annientato una gang nei panni del poliziotto macho, si veste e si trucca da donna camminando impacciato sui tacchi alti: non c’è traccia di caricatura, anche se si ride, in una delle scene più riuscite del film. Quello che viene in mente è piuttosto la doppia identità dei supereroi, sottolineata dalle numerosi cicatrici e protesi metalliche che addobbano il corpo del protagonista, dentro e fuori.

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I generi del cinema coreano. Parte IV: la commedia


L’italiano è bello perché è vario, quindi è chiara a tutti  la distinzione tra film comico e quelle che un tempo erano la comiche. Tale distinzione è non esiste nella lingua inglese, che definisce comedy sia un film sottile, raffinato ed evanescente come il lubitschiano Angel (1937; Angelo) sia il keatoniano e strepitosamente funambolico The general (1927; Come vinsi la guerra) diretto da Buster Keaton e Clyde Bruckman, sia ancora le comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy e addirittura di Red Skelton o del mediocre duo Bud Abbott-Lou Costello, noti in Italia un tempo come Gianni e Pinotto. In compenso, la parola comedy include vari sottogeneri: prima di tutto lo slapstick, basato su botte, capitomboli, inseguimenti ecc., e derivante dal termine con cui veniva designata dapprima la spatola di Arlecchino, poi, per estensione, il bastone di cui fa uso il comico (cit. da Treccani.it). La slapstick comedy è dunque erede naturale della commedia dell’arte, filtrata attraverso il vaudeville, genere teatrale leggero peculiare del Nord America, caraterrizzato da performance di artisti circensi.Le figure mitologiche della slapstick comedy americana – Buster Keaton, Charlie Chaplin, i fratelli Marx – non hanno mai avuto rivali o epigoni coreani: la slapstick coreana non ha una storia perchè da quelle parti non esiste una simile tradizione teatrale.

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I generi del cinema coreano. Parte III: K-Action


Fratello burbero del k-horror, anche l’action deriva dal melodramma. Rispetto al primo, è ancora più reazionario e legato alla cultura confuciana: se le donne fantasma tornano dall’oltretomba per riparare torti subiti perlopiù nell’ambito domestico, l’action coreana è un melò al maschile nel quale l’uso della forza e della violenza è originato dal desiderio nostalgico di tornare al passato e ritrovare la figura paterna forte al comando, ad una società composta di servi e padroni, nella quale la donna non ha praticamente nessun ruolo rilevante e l’obbedienza alle regole e al potere assume carattere religioso.

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I generi del cinema coreano. Parte II: K-Horror


Come il melodramma, anche l’horror sudcoreano, comunemente conosciuto come K-horror, è donna. Il genere infatti è letteralmente infestato da femmine fantasma dai lunghi capelli neri (gwishin in coreano) e in abito bianco, il più delle volte intente a dare tormento a studenti, adolescenti vari o parenti. E’ che il K-horror è un figlio degenere del melodramma, e come questo ha una forte connotazione sociologica: se il melodramma si caratterizzava per l’unhappy ending, con le cinderella dagli occhi a mandorla costrette al sacrificio catartico per la preservazione del patriarcato e della società sessista, il K-horror sposta l’epilogo funesto nell’oltretomba, con le medesime abusate protagoniste ritornanti nella forma ectoplasmatica della maledizione, per riparare i torti subiti ad opera della comunità o della famiglia e trovare, più che vendetta, il riconoscimento sociale altrimenti negato.

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