Revisionismo dikotomiko: The Martian, di Ridley Scott. Il tempo è galantuomo, lo spazio gli va dietro.


Sveglia, suona, buco in, pancia, scendo, cacca, radio, NASA. Base, scrivo, leggo, spacca, logic, canto, ascolto, NASA. Impulsivo che non sono altro, all’epoca della visione in sala imprecai contro regia e sceneggiatura, del film scorgevo solo il brand marketing per Nasa e USA e ne parlavo così. Sbagliavo, The Martian è un testo universitario, corso di laurea in filosofia dei viaggi nel tempo. La storia apparecchiata da Goddard – in stato di grazia – scorre, apparentemente, in ordine cronologico lineare, le vicende si susseguono infatti in modo calendariale inesorabile. Sotto la superficie invece il tempo si piega, si accorcia, si allunga, è flessibile, è liquido, è emozionale, è scientifico, è umano. E’, in una parola, relativo.

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Manchester By The Sea. Can’t beat it.


Non è un cadavere che galleggia in piscina, non si reca in una stazione di polizia a denunciare il proprio omicidio, ma è comunque un protagonista morto. Non all’inizio del film, è morto prima. E’ già un morto vivente quando il film inizia. Di giorno si trascina in giro con gli occhi spenti, parlando pochissimo, il suo lavoro glielo permette: non è necessario dire tante cazzate per sturare un cesso o riparare un termosifone. Non cerca carne umana da mordere, almeno non prima del tramonto. Di sera invece, dopo ogni giornata di lavoro duro e senza pensieri, dopo due o tre birre, i suoi occhi più spenti del solito cercano la rissa, cercano i cazzotti, la piccola catarsi quotidiana necessaria per tornare a giacere per qualche ora con un livido in più e la testa leggera, annebbiata e pulsante dolore. Un dolore che è soltanto fisico ed è il benvenuto. Il giorno dopo ricomincia a recitare nel ruolo del morto vivente. La piccola finestra vicinissima al soffitto è sempre chiusa, e dal vetro opaco si vedono i piedi e le caviglie dei passanti: la sua stanza è un seminterrato, è sottoterra. Sepolta come una bara, e con le stesse funzioni di una bara, anche se un po’ più spaziosa. E’ una stanza quasi vuota – there’s nothing there – chè serve soltanto ad addormentarsi annebbiato dall’alcol, lontano dai pensieri, dai ricordi, dagli occhi e dai cuori dell’intero universo. Lontano dalla sua vita, che è finita a Manchester By The Sea.
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The Martian, la fantascienza che ti sfiora


Sveglia, suona, buco in, pancia, scendo, cacca, radio, NASA. Base, scrivo, leggo, spacca, logic, canto, ascolto, NASA. Un tormentone si riconosce subito, penetra nelle fibre cerebraii e le disgrega. Così è questo The Martian, uno dei film più importanti della stagione 2015, nella sua dichiarata fotta di lanciare Hollywood di nuovo in orbita, su e ancor più su, dove il cielo è blu, anzi, è rosso e bianco e blu, a stelle e strisce insomma.

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Solo un’illusione


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Behind The Candelabra

Steven Soderbergh

2013

Behind The Candelabra, passato a Cannes sotto colpevole silenzio, è il cinema come piace a Dikotomiko: una storia bellissima, magistralmente raccontata attraverso corpi musica ed immagini. Un prezioso, inaspettato tassello per comprendere quel brulicante mosaico di lustrini, pailettes e virus che sono stati gli anni 80.

Una storia bellissima è sempre una storia d’amore, amore per qualcuno o qualcosa, ed una storia d’amore funziona solo se c’è magia, “chimica”, tra le parti. Qui ad amarsi sono Michael Douglas e Matt Damon totally omosex: una pop star del pianoforte ed il suo toy boy, splendidi nel mostrarsi veri in quanto grotteschi, innamorati in quanto abbandonati, uniti in quanto diversi.

La storia di questo amore  è la storia della mutazione e della metamorfosi dei corpi, tra tupè, chirurgia plastica pulp, diete estreme e devastazione da addiction/infection.

La luce tungstenica di migliaia di lampadari (candelabra) illumina un palco dove vite amaramente gaie si consumano, tra ville surreali, gioielli fuori scala, egotismi incontrollatii, al suono di un piano(forte)folle.

Soderbergh è un padre, ci prende per mano e ci accompagna in questo viaggio dalla nascita alla morte degli anni 80, dal glitter all’hiv, cercando solo, con Liberace, con Scott, di essere felice, e di renderci felici.

That’s Amore.

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Una Terra Promessa, un mondo diverso, dove crescere, i nostri pensieriiii


massimo ghini flirta con maria de filippi (frances mac dormand)
Promised Land
Gus Van Sant
2012
Matt Damon non è un pariolino, e non ha una consorte che sforna polpettoni letterari farciti di lacrime indotte e di una concezione voyeuristica del dolore. Per fortuna del cinema, e nostra, vive oltreoceano. Il buon Damon ha scritto insieme a John Krasinski una sceneggiatura innegabilmente politically correct e buonista, che è diventata nelle mani di Gus-Van-Sant-versione-mainstream (cioè lo stesso regista di Good Will Hunting, Scoprendo Forrester e Milk; non l’omonimo scassacoglioni di Elephant e Last days) un film lucido, onesto e decente. Magari un po’ annacquato dalla storia d’amore e lievemente impuzzolito di militanza liberal, ma efficace nell’esporre e raccontare le strategie dei cattivi, contrapposte alla dignità umana di una microcomunità rurale minacciata dalla crisi economica.
Oddio, chiamare “Global” l’impresa che perfora e inquina paesini bucolici per succhiare dalle viscere della terra il gas naturale, può sembrare una trovata da pariolini.
Indubbiamente mette malinconia Promised Land. E’ consigliabile la visione nel tardo pomeriggio di domenica prossima, in ciabatte, stravaccati su una sedia a dondolo vecchia di almeno quarant’anni, con una abbondante fetta di torta sul grembo.