Se nelle pagine di Nocturno fossimo costretti a fare un nome solo, tra i registi della new wave coreana, quel nome sarebbe proprio Kim Jee-woon: è lui il più devoto al cinema di genere. Ai generi. Tanto che, per sua stessa ammissione, finora ha sempre scelto un genere da trattare prima di iniziare a scrivere ogni sua sceneggiatura. Per poi, già durante la stesura e più ancora sul set, spingere tale genere all’estremo e nel contempo mescolandolo con altri. Esattamente vent’anni fa Kim inviava una delle sue prime sceneggiature ad un concorso, vincendolo. Lo script era quello di A Quiet Family, che un anno più tardi diventò il suo primo film. Si trovò al posto giusto nel momento giusto: la crisi economica aveva rallentato, se non bloccato, gli investimenti nel settore da parte di colossi come Samsung e Daewoo, lasciando campo libero a capitalisti di ventura pronti a produrre un discreto numero di film all’anno, anche a registi non affermati com’era Kim. Grazie, crisi.
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Dikotomiko intervista Park Chan-wook!
In occidente sono “il regista di Old Boy”, e me ne dispiace. Ha avuto successo, certo, ma non credo sia il mio miglior film. Vorrei che il pubblico avesse la possibilità di guardare anche i film che non fanno parte della trilogia della vendetta. Per esempio, reputo Thirst superiore a Old Boy. Park Chan-wook, aka Mr. Vendetta, titolo del primo dei film che compongono la trilogia insieme a Old Boy e Lady Vendetta. Una (non)trilogia che ha timbrato a fuoco il nome di Park sopratutto in Occidente, dove le visioni orientali sono sempre tardive, immobili, semplicistiche. A meno che non si è lettori di Nocturno, ovviamente. Qui il secondo nome del più grande regista coreano non è più Mr. Vendetta, ma
Manshin, diecimila spiriti invadono il Korea Film Fest
Il 15° Korea Film Fest di Firenze si apre ufficialmente con una docu-fiction dedicata alla figura di una sciamana: Kim Keum-hwa, nata nel 1931, quindi sotto l’occupazione giapponese, in una provincia che in futuro sarà provincia della Corea del Nord. La vita di una donna straordinaria, riconosciuta patrimonio culturale intangibile (ma quanto è bello questo titolo!), e attorno alla sua figura quasi un secolo di storia della Corea. Maltrattata ed emarginata fin da ragazzina perchè osava predire il futuro delle persone che le stavano attorno, sposa giovanissima picchiata dalla cognata, impaurita dai soldati delle due opposte fazioni durante la guerra, perseguitata dai cristiani e dai politici. Sembra uno scherzo, ma dopo tante sofferenze, l’inizio della riabilitazione dello sciamanesimo, e quindi di Kim Keum-hwa, avviene durante il regime del generale Chun Doo-hwan, che cercava di distinguersi dai precedenti governi, riempiendosi magari il petto del solito vecchio caro recupero dei valori e della cultura tradizionale. Ovviamente nei ritagli di tempo tra un massacro e l’altro di oppositori. Una storia ricchissima e illuminante, narrata con tecniche (e ritmi) alternate, riflessioni sui media, sul cinema, implicazioni politiche e sociali. Dirige Park Chan-kyong, che è il fratello di Park Chan-wook: il talento scorre nel sangue, evidentemente, chè Manshin è una visione mozzafiato, è cinema di altissimo livello, e per una volta ci uniamo ad una preghiera, per rivolgerla al dio del cinema (sempre sia lodato, chè noi siamo monoteisti, si sa) e recitata proprio da Kim Keum-hwa all’inizio del film.
The Neon Fetish, parte IV: sono pazzi questi giapponesi!
Kenichi Takahashi, noto comico televisivo 44enne, è stato arrestato per il furto di dozzine di uniformi liceali, e pare abbia confessato di rubare le divise da più di venti anni. Le sue fan si son dette dispiaciute, dichiarando che avrebbero volentieri donato le loro se avessero saputo. L’impero incontrastato del fetish è il Giappone, senza se e senza ma. Il pensiero vola inevitabilmente ai distributori automatici di mutandine sporche, ed è un pensiero ormai antiquato e limitato. Curiosamente, parte della responsabilità della diffusione del fetish per le mutandine femminili è da attribuire alla polizia, alla legge e all’ordine, visto che negli anni 60 i roman porno furono perseguitati perchè mostravano atti sessuali di donne e uomini che non indossavano biancheria intima. Le mutandine inondarono tutte le scene erotiche, quindi, per sottrarsi alla censura, alle denunce e ai sequestri, e finendo per colonizzare l’immaginario perverso della popolazione maschile. Popolazione della quale fa parte il giovane Yu, il protagonista di Love Exposure, uno dei capolavori di Sion Sono, quattro ore di acrobazie emotive, risate scatologiche e sussulti strazianti, zoom e campi lunghi, musiche reiteranti che amplificano l’epica del caos, il purissimo e lineare disordine di un magma visuale e sensoriale. Yu cerca l’amore sotto le gonne delle ragazze, fotografando migliaia di mutandine, affinando la sua tecnica, esibendosi in scatti multipli acrobatici, imparando dai maestri della perversione che tutte le risposte si trovano tra le gambe delle ragazze, collezionando quintali di foto di mutandine di ogni tipo e colore. Yu diventa il re dei pervertiti, senza aver mai avuto una erezione.
The Handmaiden, di Park Chan Wook. Let’s play master and servant!
Korine, Von Trier, Refn, Verhoeven, sono loro l’avanguardia nella rappresentazione della nuova donna, non più oggetto o soggetto ma avatar, personaggio giocabile in una realtà multilivello falsa come un videogame. A questa avanguardia va ad aggiungersi Park Chan-wook con questo suo ultimo The Handmaiden, ancora invisibile in Italia. Il film ha goduto di una vetrina prestigiosa come il Festival di Cannes e ha sbancato il box office nazionale (31 milioni di dollari incassati in sala, ottavo nella top ten del 2016), tuttavia si è perso nelle nebbie dell’oblio occidentale, vuoi per l’atteggiamento reazionario della critica, che lo ha marchiato come mero esercizio di stile (!), vuoi per le oggettive difficoltà di fruizione di un titolo che agli occhi dei più ha la tripla aggravante, è coreano, dura più di due ore ed è in costume. Liberamente (la libertà è ovvia, nel caso di Wook) tratto da una novella vittoriana inglese, per l’occasione ricontestualizzata, The Handmaiden è una storia di masters (mistresses) and servants: due donne, nobile o aspirante tale l’una, cameriera o aspirante ladra l’altra, e i loro destini incrociati al tempo dell’occupazione giapponese, la passione che le unisce e attraversa truffe, ricatti, abusi infantili, matrimoni riparatori, trattamenti sanitari obbligatori, fughe dall’antro degli orchi.
#Spring. I misteri della Puglia nera.
Vivo in una Regione a due dimensioni, la Puglia, che vince il premio Cartolina della Penisola da 15 anni a questa parte. Puglia, dove la natura è colore. Puglia, il mare, il sole, la pasta, il sugo, i trulli, le chiese, i muretti a secco, l’Ilva. Puglia, dove l’immaginario confonde città e paesi, dove la suggestione è un’allucinazione spazio-temporale, sei di Bari?, bello, io sono stata in vacanza lì vicino, a Gallipoli due anni fa, sono innamorata delle Puglia, sì ma Bari è a 200 chilometri da Otranto, non ci azzecca niente culturalmente e paesisticamente, è pure sull’Adriatico e Gallipoli è sullo Ionio, boh, io mi ricordo che ci si passa per andare al mare. Spring, di Justin Benson ed Aaron Moorhead.
No country for young men
Perchè i revenge-movie coreani sono i migliori al mondo? A causa della dittatura, terminata da meno di trent’anni? O della presenza militare statunitense, che li ha “liberati” dal colonialismo giapponese? O del conflitto Nord/Sud? Mettiamoci anche una frustrazione neanche tanto strisciante,causata dalla esasperante competizione sociale e scolastica.
Questi elementi contribuiscono certamente tutti ad alimentare le esplosioni di violenza, magnificamente furiose, che impreziosiscono i nostri film preferiti. C’è troppa rabbia in Corea, rabbia repressa troppo a lungo. Continua a leggere