Cominciamo dalle sequenze finali di The Hateful Eight, l’impiccagione da camera che non ha precedenti, e non avrà seguenti, nella storia del cinema. Guardiamo Daisy Domergue negli ultimi spasmi di vita, guardiamo le contrazioni raccapriccianti dei piedi costretti nelle scarpe di vernice, con appeso il moncherino di John Ruth, fino al sopraggiungere della morte. Feticismo estremo. Arti mozzatI, scarpe, corde, camera da letto, questo è Quentin Tarantino, non il postmoderno, ma l’archeologico, il filologico Tarantino. La scena è ispirata, forse, al Kiss Me Deadly di R. Aldrich, anche lì l’impiccagione era una danza macabra di piedi femminili, piedi nudi appesi, piedi nudi che corrono sull’asfalto in una notte buia. Il foot fetish è una questione autoriale, e Quentin Tarantino dichiara pubblicamente la sua santissima trinità in materia: Bunuel, Hitchcock, Fuller.
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The Hateful Eight, di Quentin Tarantino. What else?
Fiocchi di neve baluginano senza soluzione di continuità in ogni inquadratura, come nella casa gotica di Crimson Peak, una palla di vetro con dentro la neve, una Rosebud archetipica e temporalmente opportuna: siamo a Natale, come in The Revenant, dove Inarritu chiude la tenzone tra il 25 dicembre e Capodanno. E’ il western corpuscolare, più che crepuscolare, di Quentin Tarantino.
Spend your holiday with someone you hate! Guida necessaria a #thehatefuleight
Spend the holiday with someone you hate, passa il Natale con qualcuno che odi davvero! Una tagline strepitosa per annunciare che il nuovo film di Quentin Tarantino arriverà sugli schermi USA in concomitanza con l’arrivo di Santa Claus, con il quale condividerà anche paesaggi invernali e tanta rossissima neve. Frenate il fomento voi, italici picchiatelli, voi no, ne godrete solo a febbraio, l’intellighentia distributiva ritenendovi incapaci di sorbire al contempo lo Star Wars canonico e pure l’ottava meraviglia, l’ottavo film del Maestro. Non siete i soli a brontolare però, chè in America è tutta una levata di scudi in plexiglass, tonfa e simpaticissimi sindacati autonomi di polizia, uno su tutti, Il Fraternal Order of Police. Sembra un’invenzione di Elmore Leonard all’apice della sua ironia, è il nome della più grande associazione di poliziotti a stelle e strisce: in risposta alla discesa in campo di QT contro le violenze sui neri ed i killer cops,i Confratelli lo hanno apertamente minacciato non solo di boicottaggio, ma di azioni legali che comprometterebbero l’esito del film e financo la libertà dell’artista. Boicottaggio, dossieraggio, killeraggio mediatico non si sa, certo è questo è solo l’ultimo dei boatos che precedono The Hateful Eight. O è esso stesso The Hateful Eight, come lo è l’odissea virale della sceneggiatura rubata abbandonata riscritta, lo è la colonna sonora anch’essa trafugata modificata reinterpretatain parte in parto originale da Ennio Morricone, lo sono gli attori che interpretano il film e quelli che non lo interpretano ma avrebbero potuto farlo. Perché Quentin Tarantino ha portato il pop ad una prospettiva altra, avant almeno tanto quanto retro, spingendo la sua arte al livello quintessenziale in cui l’opera, la creazione artistica, non è più necessaria. Non nella sua interezza, bastano pochi frammenti, trailer o footage, ufficiali o apocrifi. Tant’è, tutto il mondo ha già vissuto The Hateful Eight, anche se non tutto il mondo vedrà The Hateful Eight.
Bone Tomahawk, The Western Inferno.
Za-gor-te-nay: lo spirito con la scure per gli indiani, per gli amici Zagor. Vive nella foresta di Darkwood, nord-est degli Stati Uniti, tra l’Ohio e la Pennsylvania, nella prima metà dell’ottocento. Ha conosciuto Darwin ed Edgar Allan Poe, si è scontrato con vampiri, umanoidi extraterrestri, druidi, zombi. Un fumetto che contamina il western con la fantascienza, e che quest’anno ha superato la soglia del numero 600. La sua scure infallibile è ovviamente indiana, fatta con una pietra arrotondata. Un’arma potente ma tutto sommato innocua, se paragonata alla scure realizzata con ossa (umane?) che un clan di cannibali maneggia con letale destrezza: Bone Tomahawk, un western-horror da custodire gelosamente e difendere con i denti. E la scure.
Tokyo Tribe, l’Hip Hopera di Sion Sono
In qualsiasi direzione decida di andare, Sion Sono ci va sempre a tutta velocità. E noi a corrergli dietro, anche stavolta eccitati e con le pupille sgranate, per il lungo, splendido e caotico piano sequenza iniziale, che ci trascina in un vortice cartoonesco ricchissimo che non si ferma più. Tokyo Tribe è tratto da un manga, il racconto è ambientato in una Tokyo distopica e violenta, nella quale infuria una guerra tra gang, ed è esattamente la rappresentazione di quello che i seguaci del regista giapponese si aspetterebbero. Tutto è però cadenzato da un ritmo: quello dell’hip hop. Tokyo Tribe è un musical, il primo musical che guardo per intero senza soccombere. Ed è anche la cosa più vicina al concetto di blockbuster che Sion Sono abbia mai creato.
1973, a most exploitation year. Anche in Giappone
Se da un’arteria recisa il sangue schizza con la potenza di un geyser, il pensiero non può che andare a Quentin Tarantino. Se una donna combatte con la grazia di una ballerina, indossando soltanto la sua spada, contro una decina di uomini armati, e sotto i suoi piedi c’è un manto di neve, idem. Siamo di nuovo nel 1973, ben dentro la (s)exploitation giapponese, sul versante più pulp e pruriginoso classificato come “pinky violence”, del quale fa parte anche il più raffinato Lady Snowblood. E insomma Kill Bill nasce proprio qui, nelle pieghe di carne tra Lady Snowblood e Sex And Fury.
Coffy, 1973. Revenge is a virtue
La donna invisibile, Catwoman, Batgirl, Elektra, Mystica, Tempesta e tutte le altre, inclusa naturalmente Wonder Woman, sono solo pupattole, pelle ossa e lustrini: l’unica vera supereroina – senza neanche il bisogno di superpoteri – risponde al nome di Coffy. Come ogni giustiziera mascherata che si rispetti conduce una doppia vita: di giorno lavora come infermiera e di notte si toglie la divisa bianca, travestendosi da mignotta per avvicinarsi alle palle di papponi e spacciatori. E farle esplodere a fucilate. A pensarci bene, forse un paio di superpoteri in effetti li possiede. Quando vi deciderete a spostare le pupille dalla scollatura, quello che vedrete non è la versione comica del Re In Giallo: è King George, uno dei tanti cattivi che finiscono nel mirino della vigilante più sexy del pianeta, interpretato da Robert DoQui che dieci anni dopo diventerà poliziotto in Robocop (!).