Con più di due milioni di biglietti staccati, 700.000 solo nel primo weekend, è stato il film più visto nelle sale coreane nel mese di maggio di quest’anno, dopo Avengers: Age Of Ultron e Mad Max: Fury Road. Il merito, oltre al sempre valido passaparola, va ad un cast di tutto rispetto: i volti sono familiari anche da queste parti, e lo sono maggiormente a chi ha presenziato alle gloriose giornate de I dispersi verso Oriente. Il protagonista, poliziotto della omicidi sulla via trionfale di una imminente promozione, è Son Hyun-joo, che abbiamo ammirato in Secretly, Greatly e Hide And Seek. Nella sua squadra spicca il detective Oh, che ha il riconoscibilissimo volto di Ma Dong-seok, visto di recente in Kundo: Age of Rampant, ma che tutti ricorderete incazzato nero in One On One di Kim Ki-duk. Il ruolo chiave è però quello assegnato al giovanissimo teen tv idol Park Seo-joon, 26enne al suo debutto cinematografico, l’ultimo arrivato nella squadra omicidi, l’allievo devoto, la mascotte benvoluta da tutti i colleghi.
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Coffy, 1973. Revenge is a virtue
La donna invisibile, Catwoman, Batgirl, Elektra, Mystica, Tempesta e tutte le altre, inclusa naturalmente Wonder Woman, sono solo pupattole, pelle ossa e lustrini: l’unica vera supereroina – senza neanche il bisogno di superpoteri – risponde al nome di Coffy. Come ogni giustiziera mascherata che si rispetti conduce una doppia vita: di giorno lavora come infermiera e di notte si toglie la divisa bianca, travestendosi da mignotta per avvicinarsi alle palle di papponi e spacciatori. E farle esplodere a fucilate. A pensarci bene, forse un paio di superpoteri in effetti li possiede. Quando vi deciderete a spostare le pupille dalla scollatura, quello che vedrete non è la versione comica del Re In Giallo: è King George, uno dei tanti cattivi che finiscono nel mirino della vigilante più sexy del pianeta, interpretato da Robert DoQui che dieci anni dopo diventerà poliziotto in Robocop (!).
The Treatment vs. Broken. Belgio batte Corea 1 – 0
Quando in un film viene inquadrata una tv accesa, parte il conto alla rovescia di un piacevolissimo quiz: ci sforziamo di riconoscere le immagini in miniatura, in special modo se si tratta di un film nel film, una citazione che di certo ci dice qualcosa sulla natura del film-contenitore, sul suo regista e su quello che pensa. Impossibile non citare gli eccessi di Tarantino, che in Jackie Brown mostra La Belva Col Mitra, Dirty Mary Crazy Larry e Detroit 9000. Se invece nella tv inquadrata scorrono violenze abusi e omicidi avvenuti “realmente” (quanto ci piace la sospensione dell’incredulità!) nell’universo del film, quando ad esempio un poliziotto trova nella casa del sospettato una collezione di videocassette, il gioco diventa orrore. Orrore insostenibile, lo stesso che proveremmo al cospetto di uno snuff. Pensiamo alla reazione di Marty in True Detective, quando guarda la videocassetta rubata al reverendo Tuttle. Noi no, noi guardiamo lui. E sul suo volto, l’orrore dipinto alla perfezione.
No country for young men
Perchè i revenge-movie coreani sono i migliori al mondo? A causa della dittatura, terminata da meno di trent’anni? O della presenza militare statunitense, che li ha “liberati” dal colonialismo giapponese? O del conflitto Nord/Sud? Mettiamoci anche una frustrazione neanche tanto strisciante,causata dalla esasperante competizione sociale e scolastica.
Questi elementi contribuiscono certamente tutti ad alimentare le esplosioni di violenza, magnificamente furiose, che impreziosiscono i nostri film preferiti. C’è troppa rabbia in Corea, rabbia repressa troppo a lungo. Continua a leggere
Dall’India arriva la mosca killer !
Alcuni di voi conoscono Bollywood, i più fighi conoscono Kollywood, nessuno, sono disposto a scommetterci, conosce Tollywood. Ammettetelo, signori miei: l’ultimo pregiudizio, il più duro a morire, è l’avversione al cinema indiano, ovviamente desaparecido in Italia, ma più in generale misconosciuto nei grandi festival dell’Europa tutta (quasi tutta, Neuchatel e Madrid sono eccezioni meritevoli che confermano la regola). Male, malissimo, fortunatamente c’è il Canada a rendere giustizia, con i suoi festival di genere che fanno tendenza vera, il Fantasia Film Festival di Montreal, l’After Dark Film Festival di Toronto.
Qui nel 2013 ha trionfato un film made in Tollywood, Eega, in italiano La Mosca. Un successo totale, 9 premi 9, miglior commedia/film d’azione/scena di combattimento/eroe/villain/film da guardare in compagnia/effetti speciali/editing/film originale. L’eterogeneità dei premi è chiaro indice della grandezza del film.
Prima di procedere sciogliamo l’enigma: Il cinema dell’India meridionale, della città di Hyderabad, in lingua telugu, è conosciuto anche come Tollywood. Ora procediamo.
Spikie, what’s wrong with u ?
Oldboy
Spike Lee
2013 .
Mesi fa mi sono inciampati gli occhi in una intervista a Josh Brolin, al quale si chiedeva se avesse timore dei commenti rabbiosi dei fan di Park Chan Wook, tutti incazzati a morte per l’oltraggiosa decisione di remakeizzare Oldboy, e per quella ancora più oltraggiosa di scegliere lui come protagonista. Josh rispondeva qualcosa tipo: che cazzo me ne frega di quattro sfigati segaioli che passano tutta la giornata su internet a scrivere puttanate.
(Bravo Josh! Digliene quattro! E’ ora di finirla con questo settarismo integralista, sono un branco di nerds frustrati, si arrogano il diritto di appropriarsi delle opere di altri, le adottano, le rendono feticci, e magari si sparano le seghe mentre rivedono in loop le scene più violente o quelle che definiscono “cult”.)
Da quel giorno, aspettavo di vedere il film di Spike Lee per sfogare la mia frustrazione di sfigato segaiolo che passa le giornate su internet a scrivere puttanate: sbavavo dalla voglia di ricoprire di insulti Spike, Josh e compagnia bella e bollare Oldboy come fallimento, boiata, film miseramente inutile.
Adesso che l’ho visto, ecco…
Sono costretto a scrivere che
E’ PROPRIO COSI’! HURRA’! AHAHAHAHAHAHAH!!
Torniamo indietro, riavvolgiamo il nastro e fermiamoci al 2004. Momento indimenticabile, quando i miei occhi sono stati invasi dal capolavoro del maestro, quando i miei sensi sono stati talmente scossi dalla visione da sentire la necessità fisica di rivederlo dopo poche ore. E ancora la terza volta dopo pochi giorni. E ancora. E ancora.
Abbagliato da tanta magniloquenza, dal genio estremo di Park, dalla follia anarchica di una vicenda che, tratta da un manga, diventava magia in carne e ossa senza perdere un grammo della libertà espressiva del fumetto. Un’opera che mi obbligava a stordirmi per seguire traiettorie impossibili, che mi paralizzava, e che devo rivedere ancora una volta, subito. Perchè sento il bisogno di rimettere le cose al loro posto.
Se il film coreano non fosse mai esistito, quello di Spike Lee sarebbe stato un thriller girato con mestiere, ma con una sceneggiatura contorta, eccessi pulp inutili e personaggi poco credibili. Su tutti Joe Doucett/Josh Brolin, ovviamente: una specie di Capitan America in borghese, stronzo alcolizzato che si redime e ripulisce GRAZIE al ventennio di prigionia (amen); un villain aristocratico dai tratti fumettistici caricaturali, facilmente collocabile in qualsiasi adattamento Marvel e con la faccia schizzinosa di Sharlto Copley; Elizabeth Olsen, sempre sia lodata e desiderata, che risulta invece perfetta nel ruolo della cuoricina generosa e disponibile a soccorrere chiunque.

Joe/Josh passa 20 anni segregato in una dignitosissima stanza d’albergo, e l’unico segno del tempo sul suo corpo è la perdita di peso e pancia: il suo aspetto, peso a parte, è identico a quello che aveva al principio del suo soggiorno obbligato. Suggerirei quindi di brevettare la formula come dieta efficace, oltre che come metodo di purificazione spirituale e mentale. Nei depliants pubblicitari, comunque, non dimenticate di scrivere in piccolo, in fondo in fondo, che il metodo funziona solo ad Hollywood.

Sullo schermo della tv in camera di Joe/Josh scorrono (oltre alle immagini create solo per i suoi occhi) programmi di aerobica e ginnastica, vecchi film, e lo scorrere del tempo è evidenziato dai volti dei presidenti U.S.A. che si susseguono: Bush, Clinton e… indovinate un po’ qual’è il volto che appare quando Joe inizia il suo improvviso piano di recupero forma e lucidità mentale? ESATTO, Obama! Yeah mothafukka, this is the message!
Ma.
Ma il film di Park Chan Wook esiste. Il confronto inevitabile rende il mediocre thriller di Spike Lee qualcosa di assolutamente, profondamente, totalmente, inutile e ridicolo.
I volti e le atroci sofferenze dell’istrionico Choi Min Sik e del personaggio forse più commovente del secolo impersonato da Yoo Ji Tae, gli abissi emotivi raggiunti dai due e dalla regia maestosa, l’apparente disordine nel racconto che va avanti a sussulti, in definitiva ogni fotogramma dell’opera coreana rendono insensata la fatica di Spike.
E si, Spike cita e omaggia: la lingua, il martello, la scena di battaglia: anche quest’ultima, stilisticamente notevole, perde il suo probabile senso perchè inserita in un contesto da “thriller istituzionale”.

Oltre a citare, utilizza la vicenda per stigmatizzare l’invadenza dei media nella società e la pericolosa propensione a credere a qualsiasi cosa venga trasmessa in tv: era ora che qualcuno denunciasse tutto questo! Ahahahah!
Ah, un’ultima cosa: Joe Doucett deve ringraziare Spike Lee e lo sceneggiatore Mark Protosevich che hanno evitato di tradurre i ravioli in hamburger. Se l’avessero fatto, Joe sarebbe morto nella stanza d’albergo ben prima della scadenza ventennale.
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