Il Sundance Film Festival, con questa specifica denominazione, ha 27 anni, abbastanza per cercare un fattore comune tra le millanta produzioni indipendenti passate sotto le sue insegne. Ebbene, sembra che la vera prerogativa per un film indie a marchio DOC sia l’eccentricità, dei protagonisti, o dei contesti, o delle storie, sembra insomma che registi e sceneggiatori abbiano in spregio la banalità del quotidiano e dei generi, prediligendo punti di vista distaccati ai confini della realtà. I più snob si porrebbero addirittura sopra la realtà, per manipolarla con risultati spesso odiosi (The Squid and the Whale, Me & Earl & the Dying Girl, The East, Captain Fantastic ad esempio), i più dritti invece se ne collocano al di fuori, per deformarla. Questo è il caso del collettivo riunito nella Borderline Films (borderline, appunto), tre registi freschi di studi alla New York Tisch School of the Arts che producono i loro stessi film e poi si mettano a lanciare giovani esordienti.
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Captain Fantastic, dove Viggo va a fare Angulo
Buongiorno compagni, buongiorno compagne, oggi cominciamo con una bella domanda retorica: qual è il lascito della controcultura progressista tutta, dal 1968 al World Social Forum incluso? Ho detto progressista, badate bene, e non di sinistra, o marxista, o democrat, per essere più onnicomprensivo possibile. La risposta al quesito, compagni e compagne, non soffia nel vento: il lascito giace per terra, è un cirro di polvere. Nichilismo è quello che resta, un altro mondo è impossibile. O così vogliono farci credere loro, le sentinelle semprinpiedi del capitalismo. Captain Fantastic, di Matt Ross.
Quel Fantastico Peggior Anno della mia vita. Senza Michael Cera.
Oops, I did it again, confesso che ho peccato ancora, mea culpa mea culpa mea maxima culpa. Va bene la laicità, però occorre fissare dei paletti – nel cuore? Negli occhi? – un recinto selettivamente permeabile in cui comprendere ciò che si può guardare, escludendo ciò che non si deve. Il dovere in realtà è labile quanto un piacere, o un dispiacere, ma ci sono territori già conosciuti e più volte battuti, esplorati, scandagliati, che ho deciso di abbandonare perché la mia fruizione del cinema è precipuamente edonistica appunto, non calvinista, né sadomasochista, men che mai conformista. L’errore però mi ha attratto a sé una volta ancora, mellifluo, suadente, stavolta nelle forme garbate di un giudizio, dato con cognizione di causa da uno che stimo, ed un’altra volta, un’altra volta ancora, spero l’ultima, mi sono ritrovato nelle secche mortifere del cinema Indie. Me and Earl and the Dying Girl, di Alfondo Gomez-Rejon, in sala anche da noi con un titolo raccapricciante, Quel Fantastico Peggior Anno della Mia Vita.
Cop Car, e i terrificanti baffi di Kevin Bacon
Porci con le ali iniziava più o meno così: Cazzo. Cazzo cazzo cazzo. Figa. Fregna ciorna. Figapelosa, bella calda, tutta puzzarella. Figa di puttanella. Gli exploit verbali di Rocco e Antonia mi son tornati in mente all’inizio della visione di Cop Car. Le prime parole che i due giovanissimi protagonisti pronunciano sono infatti: weiner. Pussy. Boobs. Damn. God damn. Ass. Asshole. Ass face. Bitch. Shit. Shithead. Fuck. Travis, il più scafato dei due, le pronuncia con voce ferma e aggressiva, mentre Harrison, il più sfigato, le ripete senza tanta convinzione, come un alunno docile e timido, solo per essere all’altezza del suo amico. Jon Watts aveva esordito con Clown, che con tutti i suoi (tanti! tantissimi!) difetti – primo tra tutti la produzione di Eli Roth – risultava realmente disturbante, per merito della morbosa attenzione del regista alle mutazioni del corpo, che mettevano in secondo, terzo piano l’inflazionato archetipo del clown pauroso. Morbosa è anche la passione di Watts per gli anni ottanta, che se in Clown si traduceva con estetica ed effetti speciali un po’ così, in Cop Car eleva la pellicola verso l’Olimpo della serie B più nobile. Questo è un film che non arrossisce per niente se sistemato sullo stesso scaffale di Duel, Mud, o Blood Simple, del quale possiede la stessa carica di humour nero e sadismo sghignazzante. Jon Watts sarà il regista del prossimo Spiderman: merito del suo innegabile talento o la Marvel è alla canna del gas?
Prince Avalanche, ghost soundtrack
Una signora, probabilmente vedova e sicuramente fantasma, si aggira tra le ceneri della sua casa distrutta da un incendio. Sta cercando la sua licenza di volo, che è fatta di carta quindi è sicuramente ridotta anch’essa in cenere. Ma continua a cercare: magari per un colpo di fortuna o un miracolo, la licenza è ancora intatta, nascosta da qualche parte sotto la cenere. Alvin ascolta la sua storia, la aiuta per un po’ nella sua vana ricerca, e la saluta con un caloroso abbraccio. Una scena straniante, che in qualche modo sembra un piccolo mockumentary: e invece mock non lo è per niente, quella donna fantasma non è un’attrice, è una reale sopravissuta all’incendio. Che recita nel ruolo di un ectoplasma, certamente a sua insaputa. Anche tre bambini, probabilmente orfani e sicuramente fantasmi, si aggirano tra le ceneri della loro casa. Giocano. Alvin e Lance li osservano mentre passano lungo la strada texana. Stanno dipingendo di giallo le corsie stradali in una zona devastata dall’incendio. Ma questa non è una ghost story.
Whiplash. Full Metal Drummer.
“Voi fate sogni ambiziosi, successo, fama, ma queste cose costano, ed è esattamente qui che si comincia a pagare. Con il sudore”. Miss Lydia Grant, severa e sensualissima, arringava così i pischelli della scuola di musica più vista del mondo già nel 1982. Mutatis mutandis al conservatorio di Shaffer, nel 2014, un docente sadico spietato stimolatore alleva un giovane batterista con poca carota e tantissimo bastone, mentre attorno a loro infuria il jazz. Vi presento Whiplash, il film che puzza di Oscar, premiato ovunque e osannato all’ultimo Sundance, variazione in chiave superflua sul tema dell’American Dream, o meglio, dell’American Drum.