Ho bisogno di fede. Devo credere a ciò che vedo. Quando questo non succede, preferisco chiudere gli occhi. O il cervello, che è lo stesso. La curiosità per l’eufonìa di un nome meraviglioso, Brillante Mendoza, mi ha spinto a vedere Kinatay, ed è stato un miracolo. Manila, il traffico, le strade, le prostitute, il clan, l’orrore. Ho visto tutto, ho creduto a tutto.
Tempo dopo, mi è capitato sotto gli occhi Metro Manila, un film marchiato indipendente che più indipendente non si può, e difatti ha fatto incetta di premi indipendenti, dal Sundance al British Indipendent Film Award. Una storia di povertà, colpa e riscatto (?) girata nell’area metropolitana di Manila e dei suoi brulicanti sobborghi. Stavolta il regista è inglese e conosce il luogo come potrei conoscerlo io o voi, per esserci stato una volta in vacanza. Ora, ho ben presente la solita prosopopea, non è importante quanto viaggi, è importante come viaggi, con che occhi intendo, però è innegabile che se racconti di un posto che non conosci bene puoi scivolare su semplificazioni o luoghi comuni, e anche se volessi fare l’alternativo e dimostrare di aver conosciuto, tu solo, il Genius loci, non sfuggiresti alla dura legge dello stereotipo. Mentre mi incarto in questo pensiero, un lampo mi acceca e mi torna alla memoria di quando un altro insigne britannico, Danny Boyle, sbancò Hollywood con la sua favoletta sugli slum di Bombay, che ho visto e a cui ho creduto (almeno alla prima visione, alla seconda mi sono un po’ atrofizzato). Giusto, è la fede che conta, quindi voglio credere in questo Sean Ellis.
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