Nel 2014 il Giappone ha prodotto e distribuito 418 film. Il Giappone è la quarta cinematografia mondiale, è un’industria possente, sforna storie d’arte e di cassetta, coltiva generi e giovani talenti, riconosce il ruolo essenziale dei mestieranti. Ma. Il Giappone è invisibile, almeno in Italia, oggi più che mai. Se c’è un rimpianto per l’era del veltronpariolinismo, quella in cui inforcammo gli occhiali tondi in montatura leggera e paralizzammo le labbra in sorriso sghembo da martire in trasverberazione, quel rimpianto è per l’attenzione fuorviata e trasecolata al Sol Levante. Uno stereotipo, sia chiaro, un cliché tra i tanti con i quali si usava travestirsi. In quell’epoca d’Ulivo placcato si correva in sala a vedere Takeshi Kitano, lo si accoglieva come un profeta, si pendeva dalle sue labbra dalla sua spada dai suoi occhi. Se nomino Zatoichi, molti tra voi avranno un moto del cuore, altri rivendicheranno di aver visto e vissuto l’originale, altri ancora, i più irriducibili, storceranno la bocca davanti a tanta commercialità rimpiangendo Dolls con tutto il sadomasochismo possibile. A tutti costoro dico questo, il tempo di Takeshi è scaduto, quello residuale di Miyazaki si sta esaurendo, e in fondo ve lo meritate, no more Japan nelle sale italiane, e sapete perché ve lo meritate? Perché mai vi siete lamentati dell’invisibilità di Hitoshi Matsumoto, men che mai dell’oblio cui voi stessi, farisei da cineforum, avete condannato Takashi Miike, il Dio del Cinema.
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A girl walks home alone at night, forever and ever
Questa è stata una visione partita ad handicap multiplo:
– appena ho letto il nome di Elijah Wood inserito tra i produttori mi sono quasi arreso, negli ultimi tempi è un nome che si associa solo a schifezze assortite.
– l’accoglienza trionfale al Sundance è sempre un assordante campanello d’allarme. A volte falso allarme, ma insomma.
– un film di vampiri recitato in persiano? E diretto da una regista di origini iraniane? Ambientato in una città dell’Iran? Splendido, ho pensato. Peccato che il film sia girato in territorio statunitense, ambientato in una ipotetica città iraniana chiamata Bad City, da una regista nata in Inghilterra e cresciuta in California. E’ tutto finto, è tutto artefatto, pensavo.
– Jim Jarmush universalmente accreditato come fonte di ispirazione? Quindi devo aspettarmi un maestoso e suadente mattone come Only Lovers Left Alive?
Gli allarmi e gli handicap erano talmente tanti, che mi sembrava di essere circondato dalla banda di Azione Mutante nell’atto di sfondare la vetrina di una banca a mezzogiorno.
Però in testa avevo un’immagine, che da mesi mi faceva attendere questo film, e che mi ha spinto ad ignorare il fracasso. Questa:
Non potevo resistere, una vampira in chador quando mi ricapita? Una vampira in chador che si muove su uno skateboard, perdipiù.
What We Do in the Shadows, il miglior film sui vampiri dell’anno.
Qualcuno, in questo preciso istante, sta pensando che il cinema sui non morti sia morto, che non ci sia più niente da dire o da inventare sui pipistrelli succhiasangue. Beh, questo qualcuno ha torto marcio, meriterebbe davvero un tatuaggio con i miei aguzzi canini sulla sua gorgogliante giugulare, non fosse che così gli impedirei la visione di What We Do in the Shadows, il film che più mi ha fatto ridere dai tempi di Scott Pilgrim, pensate, sono passate 12 ore da quando ho finito di vederlo e sto ancora ridendo al buio del mio giaciglio di frassino.
Strigoi: Ceausescu è vivo e morde insieme a noi
Uno si spezza la schiena per scavare una buca e seppellire il cadavere di un parente, magari piangendo. Torna a casa triste, stanco e imbrattato di terriccio, e ci trova il defunto seduto a tavola che sta mangiando l’impossibile. E dopo aver svuotato il frigorifero, viene pure spinto dalla sua fame insaziabile ad azzannare il congiunto, ossia l’esausto e incredulo scavatore di tombe inutili. Questa è ingratitudine bella e buona, altrochè. Ingratitudine diabolica, che diamine. Bizzarra anche, ed irritante. Weirdissima, pura WhatTheFuck. Proprio come questo film britannico, Strigoi, che attinge alla mitologia vampiresca di Romania, diretto da Faye Jackson e girato in Romania con attori romeni che parlano in inglese (!), tutti con evidentissimo accento romeno. La valanga di stranezze che arricchiscono questo oggetto filmico strambo inizia dalla musica posta sui titoli di testa, Spirit In The Sky (1969) di Norman Greenbaum (proprio quella che Doctor And The Medics avrebbe riportato al successo quasi 20 anni dopo), sulle cui note vediamo ballare gli abitanti del villaggio rurale che saranno protagonisti della vicenda.
The Strain, premiere Dikotomiko.
L’amore è una cura, ma anche un’infezione. La vita oltre la morte è un sogno, ma anche un incubo. Il male è umano, ma anche diabolico. I nazisti furono criminali, ma anche mostri. The Strain è tutto questo. Una creatura mutante, che continua a cambiare forma e aspetto, come se fosse un personaggio di un film di, che so, Guillermo Del Toro. Oops.
Vivere e (non) morire a Parigi
Da qualche tempo mi balocco con l’idea di inventare un nuovo genere cinematografico, il Parisien, che denoti luogo ed ambientazione piuttosto che tematiche trattate. Questo perché, come Alfred il Maestro Hitchcock affermava, la contestualizzazione è fondamento essenziale per la riuscita di un film, e quando un film si svolge o fa riferimento a Parigi è perché è Parigi la sua principale protagonista. Nella declinazione yankee, made in Usa e made in Canada, Parigi è l’Arcadia, ciò che si desidera ma non si possiede, palingenesi nella perdita del sè.
Parigi non si nega a nessuno, nemmeno ai cineasti indie alla ricerca affannosa di nuovi territori da esplorare o significare, che pensano ad Henry Miller, alla Nouvelle Vague ma anche allo R.Yates di Revolutionary Road.
Poi arriviamo a questo oggetto cinematografico non identificato, un indie parisien che abbraccia anche il new horror, Afflicted. Il viaggio turistico a Parigi di due ragazzoni dell’Ontario, interpretati dagli stessi registi Derek Lee e Clif Prowse.
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Jarmùsch di giorno, ma la notte no !
L’eternità. Il tempo nel suo scorrere senza fine e senza principio. Noi, anzi voi, siete nati e morirete, mentre il tempo continuerà a scorrere dopo di voi. Non ne vedrete la fine, non vi è concesso. Siete umani, mortali, semplici organismi con la data di scadenza. Io no. Io ho superato l’eternità, perchè io sono Dikotomiko. Un dIO, per semplificare il concetto. Continua a leggere