Hell or High Water, di D.MacKenzie. Texas, dead profundis.


Anche gli armadilli lo sanno, l’Almería e la Ciociaria furono i set per molti degli Spaghetti Western che tutti amiamo, o fingiamo di amare. La motivazione è prosaica, ovvio che girare nel deserto dietro casa, o a un tiro di fucile da casa, sia più eco(no)sostenibile che girare negli Stati dell’Unione. Come dato curioso e cinefilo, aggiungo che De la Iglesia ha dedicato un film all’Almerìa travestita da vecchia America, 800 Balas si chiama. Qui però parliamo di un caso eccezionale, parliamo di un western crepuscolare, anzi, corpuscolare, anzi, sepolcrale, prodotto negli USA, con regista sceneggiatore ed attori USA, ambientato in Texas ma non girato in Texas, bensì nel contiguo New Mexico. Sembra un’eresia, con tanto Texas a disposizione ‘sti Yankee pensano a ricostruirlo in un altro, ma il motivo è sempre lo stesso, i costi, il denaro, i fottuti bigliettoni verdi. Hell or High Water, di David MacKenzie.

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Che si doveva chiamare Comancherìa secondo la stesura del primo script, e sarebbe stato un titolo fighissimo, universale, ma va bene anche con il titolo nuovo. Hell or High Water – che in italiano significa “ad ogni costo” – è un film totale, in cui tutti gli elementi sono significanti e parimenti rilevanti. La colonna sonora, opera di Nick Cave e Warren Ellis, stabilisce da subito la cifra emotiva dell’opera, si è in morte di un universo alternativo. Ecco i walking dead, guardateli alla guida dei loro cavalli d’acciaio, una teoria infinita di auto – modelli a stelle strisce, of course, Ford, Dodge, Chrysler, berline suv e pick-up – che viaggiano da un punto insignificante della cartina del finto Texas ad un altro, parimenti insignificante. Non è un racconto urbano, o di degrado metropolitano, qui si parla di estrema provincia o ultimo avamposto dell’Impero, Texas, ultima frontiera, e i fatti accadono in cittadine minuscole e desolate, città fantasma, città di fantasmi, che scolorano e quasi scompaiono nelle inquadrature, nei campi lunghissimi sul deserto, sui pascoli in fiamme, sul niente.

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Ovunque luce accecante, il sole inesorabile del (finto) Texas, e tanto tanto cielo a mostrare la sua indifferenza per le cose terrene. Hill or High Water vive su una storia parva eppure notevole: due fratelli, il buono ed il cattivo, decidono di racimolare as soon as possible il denaro necessario ad estinguere l’ipoteca sul ranch di famiglia, si mettono quindi a rapinare le filiali della stessa banca che tiene per le palle la loro proprietà. All’inizio sono soldi facili, ed anche belle giocate al casinò, poi il diavolo ci mette lo zampino, e pure i rangers, e pure i texani qualunque, armati fino ai denti e assetati di sangue, così tutti i piani vanno a schifio, tra inseguimenti, sparatorie, spargimenti di sangue, fino ad un finale che è tanto desolante quanto edificante. Un western sepolcrale, dicevamo, che stende una coltre di piombo e di polvere su quel che resta della società americana, che induce a riflettere sul paradosso della proprietà privata, sacra come la vita negli USA ma effimera, alienata, a conti fatti, dall’aggressività di un capitalismo finanziario che dissangua i suoi stessi fautori: le case sono delle banche, i soldi sono delle banche, la terra sotto i piedi, la terra che costò il sangue dei Comanche, è delle banche.

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Così è il nuovo Far (Near) West, si ruba per non soccombere, si ruba per sopravvivere, mentre attorno tutto va a rotoli, si cerca vanamente scampo dalla povertà, che è una piaga trasmessa di generazione in generazione. Hell or High Water è un film consapevolmente ideologico, questo il suo unico lato debole, alcuni dialoghi sono così solenni da risultare didascalici, non lasciano dubbi pur di impartire lezioni agli spettatori, che così vanno in catarsi effimera. Difetto marginale, perché il film vince – domina, devasta, conquista – in virtù del suo grande impatto visivo, un trionfo di scene magistralmente costruite, con la macchina da presa ad occupare e percorrere spazi infiniti, con generi cinematografici che si alternano e deviano, dal gangster movie, all’action, al war movie, tutti sottoinsiemi di quell’unica grande Pangea che è il western. I fantasmi di Hell or High Water parlano, hanno la parlata biascicata di Jeff Bridges matusalemme, la parlata stretta di Chris Pine, sono le armi a cantare, la prima proprietà privata di questo (finto) Texas è una pistola, tutti ce l’hanno, e poi mitragliatrici da guerra, fucili d’assalto, fucili di precisione. Le traiettorie dei colpi, apparentemente casuali, seguono il fatalismo di questo popolo di sommersi, tutti uomini soli  – donne non pervenute, o abbandonate, o divorziate –, soli  come un cecchino, un American Sniper, o un sicario. Sia lodato il Dio del cinema, sempre sia lodato.

 

Independence Day: Rigenerazione. Dikotomiko sbarca su Movieplayer.it


Sapevamo che sarebbero tornati. Di più, sapevamo che non erano mai andati via. Sono passati vent’anni da quel 4 luglio ed alla fine ecco in sala gli alieni, quelli cattivissimi di Independence Day: Rigenerazione, che giocano a fare la guerra per conquistare il mondo, o meglio per distruggerlo e succhiarne avidamente il nucleo vitale. L’occasione allora è propizia per una breve e parzialissima carrellata sui nemici di oltre-Terra, almeno i più significativi – a nostro avviso, si intende – passati sul grande schermo dal 1996 ad oggi. Cominciamo con Signs di M. Night Shyamalan: resta infatti immortale il finto found footage in cui, durante una festa di compleanno a Rio de Janeiro, viene ripreso un mostro spaziale che attraversa fugacemente un vicolo. Il terrore dell’ignoto è tutto in quella visione brevissima, un lampo che impressiona gli spettatori atterriti e chiusi nelle loro sale come gli stessi protagonisti chiusi nelle loro case.

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The Revenant. Non vendere la pelle di Leo.


Zombi? Romero! Suspense? Hitchcock! Vendetta? Park Chan Wook! Il gioco delle associazioni di genere era destinato a funzionare anche stavolta, il maestro coreano doveva infatti dirigere Revenant – Redivivo, con Samuel Jackson protagonista. Il lavoro di Alejandro González Iñárritu, a conti fatti, non pare discostarsi da quello che Park avrebbe realizzato. La rabbia e il dolore possono tenere un uomo in vita nonostante il freddo mortale delle montagne rocciose, anche dopo che un grizzly ne ha straziato le carni. La rabbia e il dolore alimentano il vento tra le sequoie delle sterminate foreste del Montana e del Wyoming, dove il cacciatore di pellicce Hugh Glass si rifiuta di morire, spinto dalla bruciante sete di vendetta e accompagnato costantemente dalle visioni dei suoi cari defunti, che devono molto a Malick e stridono con il freddo minaccioso e la tremenda indifferenza della natura, chiaro lascito di Herzog. Quella di Glass è una storia vera, diventata da subito ispirazione per leggende e poemi. Nel 1920 i versi di John G. Neihardt – The Song Of Hugh Glass – ne raccontarono la storia con toni epici e la volontà di celebrare le lotte e le vittorie di uomini solitari, in un’epoca durante la quale la società era zero e l’individualismo era tutto, ma già nel 1824 la notizia dell’uomo sopravvissuto all’attacco di un orso aveva fatto il giro degli States, simbolo perfetto per l’epos della frontiera.

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Spend your holiday with someone you hate! Guida necessaria a #thehatefuleight


Spend the holiday with someone you hate, passa il Natale con qualcuno che odi davvero! Una tagline strepitosa per annunciare che il nuovo film di Quentin Tarantino arriverà sugli schermi USA in concomitanza con l’arrivo di Santa Claus, con il quale condividerà anche paesaggi invernali e tanta rossissima neve. Frenate il fomento voi, italici picchiatelli, voi no, ne godrete solo a febbraio, l’intellighentia distributiva ritenendovi incapaci di sorbire al contempo lo Star Wars canonico e pure l’ottava meraviglia, l’ottavo film del Maestro. Non siete i soli a brontolare però, chè in America è tutta una levata di scudi in plexiglass, tonfa e simpaticissimi sindacati autonomi di polizia, uno su tutti, Il Fraternal Order of Police. Sembra un’invenzione di Elmore Leonard all’apice della sua ironia, è il nome della più grande associazione di poliziotti a stelle e strisce: in risposta alla discesa in campo di QT contro le violenze sui neri ed i killer cops,i Confratelli lo hanno apertamente minacciato non solo di boicottaggio, ma di azioni legali che comprometterebbero l’esito del film e financo la libertà dell’artista. Boicottaggio, dossieraggio, killeraggio mediatico non si sa, certo è questo è solo l’ultimo dei boatos che precedono The Hateful Eight. O è esso stesso The Hateful Eight, come lo è l’odissea virale della sceneggiatura rubata abbandonata riscritta, lo è la colonna sonora anch’essa trafugata modificata reinterpretatain parte in parto originale da Ennio Morricone, lo sono gli attori che interpretano il film e quelli che non lo interpretano ma avrebbero potuto farlo. Perché Quentin Tarantino ha portato il pop ad una prospettiva altra, avant almeno tanto quanto retro, spingendo la sua arte al livello quintessenziale in cui l’opera, la creazione artistica, non è più necessaria. Non nella sua interezza, bastano pochi frammenti, trailer o footage, ufficiali o apocrifi. Tant’è, tutto il mondo ha già vissuto The Hateful Eight, anche se non tutto il mondo vedrà The Hateful Eight.

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C’era una volta il (Slow) West


Certamente ricordate tutti la scena di Alta Fedeltà nella quale John Cusack mette su un cd nel suo negozio, scommettendo con il suo aiutante che in una manciata di minuti avrebbe venduto 5 copie del disco. L’irresistibile canzone che si sente è questa, la band è la Beta Band e il disco, monumentale, è The Three E.P’s (tra l’altro quella scena ha provocato un boom di vendite negli Stati Uniti impensabile per i Beta Bandidos prima d’allora: merito di Stephen Frears, ma anche di John Cusack che collaborò alla sceneggiatura) che quando uscì, alla fine dagli anni 90, sembrava provenire da un’altra galassia. Nella band militava un certo John Maclean, che ne ha diretto inoltre quasi tutti i videoclip – stilisticamente si possono considerare dei piccoli film – incluso questo. Dopo lo split della band, ha diretto due corti, che con Slow West hanno in comune l’attore protagonista: il suo amico Michael Fassbender.

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Prova a stare tu un altro inverno nel Nebraska


Nebraska. Prima di essere uno stato è un disco, e prima ancora un’immagine, una foto scattata negli anni settanta: la sua copertina, fredda, minacciosa, desolata, infinita e invincibile come l’inverno nel Midwest, nient’altro che una linea che sta lì a dividere la terra dal cielo, immobile.

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Nel 1850 quella terra era ancora più dura, tanto dura da spezzarcisi la schiena nel tentativo di cavarci qualcosa: non era esattamente una vita facile, quella dei pionieri. Ma essere le mogli dei pionieri, ed essere semplicemente donne, era un compito ancora più duro. Talmente duro da perderci la testa. Il freddo, il nulla scosso dal vento tutt’attorno, i mariti che le violentavano per una vita, la difterite capace di uccidere i figli appena nati.

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Un milione di modi per annoiarsi a morte nel West


L’11 settembre del 2001 Seth MacFarlane arrivò tardi all’aeroporto di Boston e di conseguenza non riuscì a prendere il volo per Los Angeles. Quell’aereo si schiantò nel World Trade Center (io so per mano di chi, voi no). La fortuna di MacFarlane è inversamente proporzionale al suo talento cinematografico.

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