1973, a most exploitation year. Anche in Giappone


Se da un’arteria recisa il sangue schizza con la potenza di un geyser, il pensiero non può che andare a Quentin Tarantino. Se una donna combatte con la grazia di una ballerina, indossando soltanto la sua spada, contro una decina di uomini armati, e sotto i suoi piedi c’è un manto di neve, idem. Siamo di nuovo nel 1973, ben dentro la (s)exploitation giapponese, sul versante più pulp e pruriginoso classificato come “pinky violence”, del quale fa parte anche il più raffinato Lady Snowblood. E insomma Kill Bill nasce proprio qui, nelle pieghe di carne tra Lady Snowblood e Sex And Fury.

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Vendetta e ultraviolenza, arti recisi, sangue a fiotti, tanto nudo e tanto sesso, anche lesbico e threesome, suore armate di stiletto, morte per avvelenamento da cunnilingus, una sexy-spia occidentale (Christine, spia per amore, che ha il volto e sopratutto il corpo nudo della svedese Christina Lindberg), un samurai rivoluzionario.

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E poi l’apoteosi, una scena che ha del commovente: la protagonista è incatenata, frustata fino a sanguinare e torturata da Christine, vestita da texana, sotto lo sguardo compiaciuto e attento di un branco di suore assassine. Tutto questo avviene dentro una chiesa, con la musica sacra dell’organo d’ordinanza, e con il cristo crocifisso sullo sfondo!

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Il regista Norifumi Suzuki, che con le tematiche religiose ha sempre giocato, stavolta ha praticamente imbandito un pranzo di gala della serie B.

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Nei 41 anni passati dall’uscita di questo film, sono convinto che siano stati pochissimi gli spettatori sinceramente interessati allo svolgimento narrativo. Eppure la cosa più weird di quest’opera è forse proprio l’ambiziosissimo plot, intricato e stratificato, denso di subplot mica da poco.

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C’è la volontà di raccontare la trasformazione del Giappone di inizio 900, che tende a diventare una superpotenza moderna; la corruzione del potere, in mano a politici e uomini d’affari senza scrupoli dal passato yakuza; l’intrecciarsi di queste vicende politiche con le vendette personali della protagonista Ocho, gambler tatuata e abilissima borseggiatrice (Reiko Ike), e del giovane dissidente Shunosuke; e non manca una storiella romantica da piangersi via gli occhi.

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Dicotomie come se piovessero: uomini (vestiti) contro donne (nude), oriente contro occidente, tradizione contro modernità, potere contro ribellione. Al ritmo psicotico di una musica che spazia dal funky al garage alle melodie classiche senza esitazioni e senza preoccuparsi troppo di quanto fuoriposto possa risuonare.

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Grazie ai colori costumi tatuaggi e alle scenografie ultrapop, ad una messinscena curata, riprese a tratti addirittura sperimentali e una regia stilosa che ha del visionario,  Sex And Fury resta anche nel 2015 ai massimi livelli del suo (de)genere, impreziosito all’inverosimile dai corpi generosi e sovresposti di Christina Lindberg (attrice assolutamente ridicola ma non se n’è accorto mai nessuno) e sopratutto Reiko Ike, destinata a diventare, grazie a questa prova sublime, stella di prima grandezza del pinky violence.

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Il suo talento naturale aveva sicuramente radici molto salde, visto che alla fine degli anni settanta la sua carriera subì un definitivo stop in seguito a due arresti. Uno per droga e l’altro per gioco d’azzardo. Roba da tatuarsi il suo nome in fronte.

 

 

Sex And Fury

Norifumi Suzuki

1973

 

 

 

 

 

 

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