A Lohan in the Dark


The Canyons

Paul Schrader

2013

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Oggi è un giorno terribile, tutto il mondo piange la prematura scomparsa di Lindsay Lohan, l’Ultima Diva. Le notizie sono ancora confuse, ma si pensa ad una mix mortale di droghe, farmaci ed alcool, tanto alcool.

Lindsay è stata trovata senza vita all’alba, i soccorsi sono stati chiamati dalla dogsitter Andrea, una bambina portoricana di 13 anni al centro dei pettegolezzi per la sua presunta relazione con la star.

I soccorritori hanno trovato la malcapitata riversa a terra in salotto, tra pipe di cristallo, bottiglie vuote e centinaia di dildo e vibratori. Era completamente nuda, avvinghiata al suo Big Mickey, il celeberrimo bambolotto in silicone raffigurante un Mickey Mouse superdotato.

Lindsay, uscita dalla rehab appena due giorni fa, lascia un vuoto incolmabile nel mondo del cinema, abbiamo ancora negli occhi le sue interpretazioni in Herbie – Il super Maggiolino, Machete ma soprattutto: The Canyons.

Proprio The Canyons, film che le è valso l’Oscar come migliore attrice nel 2013, è il suo testamento capolavoro.

Un film metallico, freddo e asettico come la sala di un obitorio, nel quale Lindsay, anche in veste di produttrice, interpreta una donna che tenta con ogni mezzo di conservare il suo lifestyle di amante di un danaroso e perverso produttore cinematografico, la star del porno James Deen, clone del Val Kilmer clone di Jim Morrison, qui alla prima interpretazione mainstream.

Evidente l’attrazione chimica tra Lindsay e James, fluttuante tra possesso, violenza, sadomasochismo, repressa in un vortice di tradimenti e giochi erotici senza orgasmo, patinati come nel peggiore film di Adrian Lyne (a voi la scelta tra Attrazione fatale o Orchidea selvaggia).

L’atmosfera è pesante, corpuscoli di nichilismo e decadenza volano tra i boulevard di Hollywood, si fondono con la polvere e la rovina di innumerevoli cinema in abbandono. In questo spazio che è post (mortem, anni ’80, atomico, umano ), Lindsay si aggira, amata e amante, dolente e perdente. Il seno, archetipico e proverbiale, pende oramai sul suo ventre sfatto, la voce è incerta e arrochita dal fumo di mille sigarette, i lineamenti orridamente deturpati dall’overdose di botox, la recitazione devastata da amnesie e tic.

Paul Schrader e Bret Easton Ellis ne fanno la Gloria Swanson di un mondo in cui la notte nera è seguita al tramonto, la circondano di vuoto e di punti di riferimento ectoplasmatici e sempre cangianti. Nell’ipnosi letale di una soundtrack elettronica alla Tangerine Dream, Lindsay esorbita e diventa Sorella Morte, svela l’ultimo inganno, la falsità delle relazioni tra i personaggi che interpretano attori che interpretano altri personaggi, in morte dell’opera filmica, in morte dell’esegesi di essa.

Meno empatico ma più desolante dei coevi Spring Breakers e Drive, The Canyons suggellò la fusione finale tra cinema e internet. Negli intenti del regista e dello sceneggiatore, all’epoca erroneamente sovrapprezzato e sovrastimato, avrebbe dovuto essere una denuncia contro la disumanizzazione indotta dal web, contro l’intrusività della Rete nel sesso, nelle immagini, nel lifestyle di chiunque. Nei fatti accadde il contrario, in quanto il film fu realizzato con fondi e attori reperiti in Rete e fu distribuito grazie al pionieristico canale on line Netflix.

The Canyons fu l’ultima magistrale interpretazione di Lindsay. Finta in carcere alla fine delle riprese, per una storia di cleptomania e bambole gonfiabili ancora oggi piuttosto oscura, lasciò le scene per ritornare alla sua vera passione, la narrativa per bambini.

Addio Lindsay, la tua sincerità ci è entrata nelle ossa.

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