Dio, Patria, Famiglia.


Prisoners

Denis Villeneuve

2013

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Sedia a dondolo, birra e taralli, tutto pronto. Basta poco per sentirsi felici. E’ una bella sensazione, che però dura 3 secondi. Poi suona quel cazzo di citofono. Sarà ancora il solito scroccone, penso. E infatti. Sposto la sedia a dondolo per infilarci di fianco una vecchia poltrona semisfondata, ma comoda. Brian, prima ancora di chiedermi come va, sta già triturando tra i denti il terzo tarallo mentre la sua mano libera afferra il collo della bottiglia. La mia birra. Che film mi proponi stasera, chiede sputacchiando microgranuli di tarallo. Informo il signor Brian-Paraculo-De Palma che annuisce soddisfatto e si stravacca sulla poltroncina.

(…)

Dopo un’ora abbondante di visione (livida, nera, tesa e densa) il volto del male si manifesta, inonda lo schermo, e Brian-Micopianotutti-De Palma mi molla una gomitata nelle costole, alitandomi in faccia “sembra un mio film di 30 anni fa”, e sorride sornione.

Sono costretto a dargli ragione.

Per quello che può fregarvene, Prisoners sarà nella mia Top Ten dell’anno. Fratello minore di Mystic River, più riuscito di Gone Baby Gone, monumentale come un romanzo di Dennis Lehane, sprigiona a tratti il magnifico tanfo delle pagine nere di Cormac McCarthy, e addirittura qualche gloriosa zaffata horror anni settanta (e sì, anche De Palma ’80).

Costruito su una sceneggiatura di altissimo livello, coinvolgente e spiazzante, farcita di chiarissimi riferimenti politici (datati, come lo script, ma non per questo meno efficaci) alle torture di Abu Ghraib, ed all’ossessione (sterile) per la sicurezza. Rapire due bimbe nel giorno del Ringraziamento = attaccare il cuore dello stato. Hugh Jackman è il padre muscoloso, religioso ed aggressivo, ma in fondo debole e vile = la superpotenza militare statunitense messa in ginocchio da un pugno di poveracci l’11 settembre (cosa mai accaduta, ma teniamoci alla versione ufficiale).

Jake Gyllenhaal, il Detective Loki, è il mio supereroe del 2013. Solo, senza vita privata e sociale, tic facciale e spalle pesanti cariche del suo misterioso passato. Tormentato come Batman ma senza maschera.

Immenso Paul Dano, che porta nel suo sguardo la terribile storia che lo ha trasformato nel ritardato, agnello sacrificale e capro espiatorio per eccellenza del cinema di questo decennio.

A differenza dei suoi film precedenti, Polytechnique e La donna che canta, la regia di Denis Villeneuve è classica, lineare, solenne e a tratti perfino didascalica, totalmente al servizio della narrazione, funzionale alla sua potenza intrinseca. Un risultato di tale livello poteva metterlo a segno solo Clint Eastwood, e forse anche Sean Penn.

“You have to lose
you have to lose
you have to learn how to die
if you want to be alive”

Sui titoli di coda finalmente mi rilasso, ricordo la presenza dello scroccone e giro la testa per chiedergli del film, e…

..cazzo, sta dormendo!

Gli sfilo dalle dita la bottiglia vuota e mi accendo una sigaretta. Guardo le briciole sulla pancia che si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro pensando “… e questo relitto ha diretto Omicidio a luci rosse? Mah!”.

 

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