A Touch of Sin: il torrente conquista il Fiume Giallo


La via cinese al capitalismo. La trasformazione del più grande regime marxista in un regime capitalista post-moderno avviene (è avvenuta, avverrà?) in modo indolore, solo qualche piccolo incidente di percorso, un tocco di repressione, qualche carro armato a macinare ossicine in piazza, alcune etnie insettiformi da debellare, è vero, ma vuoi mettere il profitto, la mano invisibile dei mercati, il benessere diffuso, l’erezione priapica del PIL? Il sistema è semplice e tanto ben congegnato da assurgere a modello esportabile e replicabile: sotto il naso delle farisaiche democrazie atlantiche, si perpetua la negazione dei diritti fondamentali (Cina primo Paese al mondo per esecuzioni capitali), al contempo si olia la macchina della propaganda dismettendo libretti rossi e fabbriche di trattori per puntare sulla fabbrica dei sogni. Cinema, oppio dei popoli.

Il box office cinese già vale il 10% del box office globale, e per il 2020 supererà quello americano, anzi lo fagociterà, tanto che Hollywood per tramite della Marvel o della Paramount progetta già l’epos filmico del famoso esercito di terracotta.

La Nazione e l’Occidente tutto sorbiscono copiose visioni di mitologico nazionalismo, grazie anche all’integrazione politica e commerciale con l’industria cinematografica di Hong Kong. Kolossal di qualità eccelsa e ad altissimo budget garantiscono apologia, entusiasmo ed incassi miliardari. Questo è il territorio di Stephen Chow, di Tsui Hark, il regno dell’immenso John Woo. Accanto a questi, con la magnanimità pelosa tipica dei regimi totalitari, il governo medesimo finanzia un esiguo numero di cineasti indipendenti quali Jia Zhangke (si legga a tal proposito questa illuminante analisi di Edoardo Gagliardi), tollerando la produzione di film pregni di significato sociale, distopici e critici, che gireranno i festival raggranellando compassionevoli plausi dai soliti maître à penser, ma che mai arriveranno nelle sale del Regno Proibito, salvo diffondersi come un virus grazie alla distribuzione pirata.

È il caso di A Touch of Sin, premio per la sceneggiatura all’ultimo Cannes. Prodotto dal regista, dal colosso nazional-politico Shangai Film Group e, in feconda partnership sino-giapponese, dall’Office Kitano, Il film è in realtà un’operazione cinematografica molto astuta. Jia Zhangke traveste con il genere – “un wuxia contemporaneo”, ripete in più e più interviste – questo apologo contro la deriva umana del Paese, narrando 4 storie liberamente ispirate a fatti di cronaca nera occorsi in differenti regioni della Cina. La vendetta, Kitano docet, è il filo rosso del film: contro la privatizzazione selvaggia di una miniera, contro una sconosciuta coppia neoborghese, contro laidi businessman in cerca di sesso mercenario, contro se stessi in quanto amanti non corrisposti. Fossimo in Giappone, la vendetta sarebbe esibita nella sua essenza più profonda, percorso iniziatico di un novello Prometeo che cerca il sé e ciò che gli appartiene. Qui siamo in Cina, la vendetta è un paravento, il deus ex machina di tutta l’opera è il denaro nella sua più cartacea materialità: rotoli di banconote usati, branditi (come in Still Life per farsi vento) per picchiare donne non compiacenti. Sbagliato pensare che l’adorazione materica del denaro sia fenomeno di recente importazione, la ricchezza è sempre stata onorata nella tradizione taoista cinese come favore degli/agli Dei. L’attacco al denaro, per il tramite di esso l’attacco alla ricchezza e alla brama di potere, significa attacco alle radici culturali e religiose della Cina, alla gerarchia delle classi sociali di presunta origine divina, e la scelta di location sperdute e di ancor più sperduti protagonisti rende il messaggio più radicale, rivoluzionario quasi.

A Touch of Sin, il cui titolo in cinese significa “scelta dal cielo” per sberleffo al determinismo fatale di eventi e comportamenti, è tuttavia lungi dall’assurgere a manifesto politico. È un grandissimo film di un grandissimo cineasta, che infarcisce il racconto con scorci di incredibile surrealismo (il camion di arance rovesciate sull’asfalto, poi d’improvviso un’esplosione) alternati a momenti di puro gore kitaniano, fino a rivisitare l’iconografia faunistica cinese in chiave di alienazione dell’individuo (il cavallo frustato a sangue, il drappo raffigurante la tigre, l’anatra sgozzata) e a carezzare la tradizione teatrale con il richiamo finale a La Foresta dei cinghiali, mostrando ovunque il tocco della sua ironia. Memorabile in questo senso è la parata delle escort(s) vestite da soldati rossi tra i bavosi ricconi cantonesi, dirompente come le parata della majorette offerte alla lussuria dei broker in The Wolf of Wall Street, che pure è un film dirompente sul culto del denaro.

Un capolavoro dunque, non fosse che la scelta del film a episodi non è nelle nostre corde. La bidimensionalità e la concisione dei racconti enfatizza l’aspetto didascalico locale, a detrimento della dimensione universale dell’affabulazione, svelando le reali intenzioni del regista. La bulimica censura cinese, che ha totale discrezionalità nel valutare la pericolosità sociale di un’opera, ha mangiato la foglia e prontamente ne ha bloccato sine die l’uscita nelle sale nazionali. Non ha potuto impedire che l’opera inondasse Oriente ed Occidente in formato pirata scaricabile on line, ovviamente all’insaputa (?) dello stesso regista, che ancora oggi dichiara di confidare nella possibilità di una distribuzione ufficiale, attribuendo alla sua società di produzione l’omesso controllo sulle copie illegali e offrendosi di risarcire i mancati incassi (quali, se il film non ha distribuzione ufficiale ?) allo Shangai Film Group.

Che birbone.

A Touch of Sin

Jia Zhangke

2013

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