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Aveva sedici anni quando l’abbiamo conosciuto, si faceva chiamare Pukey ed era uno skinhead. Le cose sono evidentemente peggiorate nei due anni durante i quali l’abbiamo perso di vista, visto che nei dintorni di Eden Lake è diventato il perfido capo di una gang di violentissimi giovinastri. Oggi è cresciuto, e di certo non ha risolto i suoi problemi: arriva nel carcere di Wandsworth, il più grande del Regno Unito, perchè nonostante la sua giovanissima età è un elemento troppo pericoloso e incontrollabile, quindi  “trasferito prematuramente dal carcere minorile a quello per adulti”. Che tradotto in inglese suona: Starred Up.

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(Mi chiedo preoccupato se Boyhood mi abbia devastato a tal punto da costringere la mia mente a compiere una simile ripassata cronologica per ogni film che vedrò. Ma no, passerà.  Di Mason ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno. Bugia, non passerà: Boyhood mi accompagnerà per sempre, temo.)

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Jack O’Connell non é Tom Hardy, d’altronde nessuno è Tom Hardy eccetto forse Tom Hardy. Eppure è riuscito a dare al suo personaggio in Starred Up quello che Tom Hardy ha dato a Bronson e al Freddy di The Take: la capacità di far spavento, di tenerci sulle spine in uno stato di quasi-panico, inquieti e con gli occhi sgranati, sicuri che da un momento all’altro esploderà. Questa è la prima sceneggiatura scritta da Jonathan Asser, che ci ha rovesciato dentro le sue esperienze personali, quelle passate sul lettino e quelle che ha passato dietro la scrivania: prima in terapia, poi nelle vesti di psicoterapista.

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Anche dentro il carcere, lavorando sui detenuti e sul loro difficile rapporto con l’aggressività, l’autocontrollo e la vergogna. Asser ha dichiarato che, quando ha varcato per la prima volta i cancelli di una prigione, si è sentito finalmente a casa. Deve essere stata una sensazione forte e determinante per la sua vita, tanto che ha messo in bocca ad uno dei  suoi alter-ego nel film, (un terapista idealista ma con la spina dorsale bella dritta – e ci sono pezzi di Jonathan Asser anche negli altri due personaggi chiave) le stesse parole, “I feel at home”.

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La pellicola trabocca di maschi-alfa, bestiole violente e impacciate: la parola “imbarazzo” esce spesso dalle bocche dei protagonisti, l’imbarazzo più grande è  quello del rapporto affettivo inespresso tra padre (Ben Mendelsohn, immenso anch’egli) e figlio, rinchiusi entrambi in quel contesto disfunzionale, marchiati con un cognome che è tutto un programma: Love.

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E’ un prison-movie, classicissimo e fedelissimo alle regole del genere anche. Inizia come devono iniziare tutti i prison-movie, tanto che basterebbero i rumori ambientali dei primi cinque minuti a riconoscerlo come tale. Ma è tutto il lavoro sui suoni ad essere perfetto, unito ad una regia cruda, quasi in stile-documentario, capace di prenderci per i capelli e chiuderci in carcere per tutta la durata del film.

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La violenza è ovviamente onnipresente, siamo in carcere: violenza fisica e verbale, difensiva e istituzionale, eterno surrogato di pulsioni sessuali represse e moneta di scambio sempre valida. Ma la crudezza e il realismo non soffocano, anzi amplificano, gli sforzi che tutti, tutti i carcerati compiono o cercano di compiere per riuscire in quell’impresa titanica che è comunicare, interagire, incontrarsi e parlare. Le scene più belle del film sono infatti le riprese delle sedute di gruppo, durante le quali la tensione emotiva e fisica si taglia a fette. Starred Up è di certo nella mia Top Ten del 2014, e per ora lo conservo accanto al Profeta di Audiard, che fino a tre ore fa era il mio carcerario preferito.

Starred Up

David Mackenzie

2013

 

 

 

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