Alabama Monroe, una storia d’amore


Mi illudo di guardare il cinema con gli occhi del medico, un misto di curiosità scientifica e agnosticismo professionale, mi accorgo invece di farlo con gli occhi di un tossico, un misto di avidità e disperazione, perché ho bisogno di quelle immagini, sempre di più.

Penso che il cinema che amo sia quello che inquieta e disturba, credo di averlo identificato pertanto navigo tra i generi e le nazioni con l’istinto di un ramponiere, mi tengo alla larga però dal cinema del dolore, dall’esibizione della caducità umana, specie se relata all’infanzia, o alla vecchiezza che è lo stesso.

Poi mi tocca, mi obbligo a guardare The Broken Circle Breakdown, Alabama Monroe, quel film belga pluripremiato incidentalmente sconfitto agli Oscar da La Grande Bellezza, che si unisce a Borgman e a La Cinquième Saison per dimostrare la vitalità di una cinematografia poco nota e esce anche in Italia. Allora vengo divorato dal dubbio di aver sbagliato tutto, forse è il dolore l’unico vero disturbante perturbante, mi ci immergo quindi senza rassicurazioni.

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Will the circle be unbroken, by and by Lord by and by.
There’s a better way to live now, we can have it if we try.
I was born down in the valley where the sun refused to shine
but now I’m climbing – up to the highlands – Gonna make all those mountains mine.

Da un punto di vista analitico, è il primo film post(avant)indie, nel senso che assimila la buona lezione del defunto cinema indipendente americano degli ultimi anni e la trasla nelle Fiandre: montaggio a flashback alternati, cortocircuito emozionale su romanzo di protagonisti eccentrici e borderline, dove border sta per frontiera. Una storia come una ballad. Lui, Didier (Monroe),  è un countryman ateo che crede nei suoi sogni e infatti sogna di vivere in America, guarda tg americani, suona il banjo, fa musica bluegrass. Lei, Elise (Alabama), meravigliosamente hippie, istoriata di tatuaggi peggio di un mafioso russo, sexy come la natura, lo ama, canta con lui e ne nutre simbioticamente la passione.

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Questo country – come il blues – canta la sofferenza con il nome di Maybelle, da“Mother” Maybelle Carter che negli anni 30 cantava in America la canzone che titola il film. Maybelle, qui piccola figlia del grande amore di Elise e Didier, è gravemente malata. Sul tema già avevamo pianto e sognato al ritmo tecnopop con Valerie Donzelli ed il suo incredibile La Guerre est Déclarée, struggente sofferenza maieutica, la stessa che ci somministra Felix Van Groeningen.

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Mi fermo qui, non è come pensate, cioè forse sì, peraparatevi a singhiozzare, a tremare come foglie, però resistete e non distogliete lo sguardo dallo schermo, assisterete a meravigliosi lampi di visione, questo è grande cinema, disperato, vitale, immaginifico, sincero. Quanto a me, non preoccupatevi, non mi fa effetto, posso smettere quando voglio.

Vero ?

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